In ambito nazionale, oltre una decina di anni fa, si assistette ad una rivoluzionaria presa di coscienza delle emittenti radiofoniche: quella di avere il coltello (commerciale) dalla parte del manico.
Dopo almeno un quindicennio di soggezione, gli editori nazionali ribaltarono i rapporti di forza, smarcandosi dalle concessionarie che ne annichilivano le identità attraverso una svilente vendita all’ingrosso. Proclamata la propria indipendenza, ancorché – va ricordato – non in maniera indolore, le emittenti (nazionali) ancora al guinzaglio dei piazzisti di radio a grappolo scoprirono presto che proporsi a big spender e centri media direttamente non era impossibile come era stato fatto loro credere. Anzi, il rapporto diretto con gli inserzionisti favoriva collaborazioni strette e proficue, che in breve fecero schizzare in su i fatturati, generando un ciclo virtuoso che denanizzò imprenditorialmente la radiofonia nazionale. Per il comparto locale, invece, il rapporto di subordinazione andò immotivatamente ad intensificarsi. Via via, fino a raggiungere la sua apoteosi oggi, quando, anziché cogliere l’opportunità offerta dal recente tourbillon che sta riassestando gli equilibri nella raccolta della pubblicità nazionale sulle emittenti areali, anche patron di radio dai grassi ascolti hanno palesemente deciso di mettere il cappello per terra, elemosinando l’aggregazione ai carrozzoni pubblicitari rimasti sul mercato. John F. Kennedy con una grossolana ma efficace trasposizione di significato, disse che in cinese la parola crisi (wēijī) era composta di due caratteri: uno rappresentava il pericolo, l’altro l’opportunità. A riguardo: anziché perdere tempo nella costituzione di consorzi DAB dagli incerti futuri ma dagli immediati costi, non sarebbe (stato) meglio colmare il vuoto di una concessionaria (veramente) captive?