Dal 23 aprile Internet non sarà più la stessa, almeno negli Stati Uniti. La settimana scorsa, la Federal Communication Commission (FCC), agenzia governativa indipendente che regola il sistema delle comunicazioni statunitense, ha pubblicato sul Registro Federale il provvedimento che – di fatto – abolisce la net neutrality negli Stati Uniti.
Per capire le implicazioni di questa normativa fortemente voluta dalla nuova presidenza bisogna fare un passo indietro e chiedersi cosa sia la net neutrality. Si tratta di un principio teorizzato all’inizio degli anni duemila e che caratterizza la connessione Internet come la conosciamo: secondo la “neutralità della rete” gli operatori di rete (provider) devono trattare in maniera neutrale il traffico di tutti i dati. Vale a dire, ogni sito deve essere veicolato e reso disponibile agli utenti alla stessa velocità e con le stesse modalità, a prescindere dal suo contenuto, da chi lo origina e dal provider che lo rende disponibile. Queste regole erano state fissate nel quadro normativo americano solo tre anni fa, durante la presidenza Obama.
Secondo i più, la net neutrality sarebbe stata e sarebbe ancora vitale per il sistema-internet: lato content maker, l’uguaglianza formale nella veicolazione dei dati, garantirebbe a tutti le stesse possibilità di crescita, come è accaduto per Google e Amazon prima, per Twitter e Facebook poi, fino ad arrivare a Netflix, che da piccole aziende sono diventati giganti del web; lato user, la neutralità sarebbe il substrato necessario ad una Rete aperta e democratica, configurata come “utility” ugualmente disponibile per tutti.
Non sono dello stesso avviso, però, i provider come At&T e Verizon, che – nella comprensibile prospettiva di un maggior guadagno – da sempre si oppongono alla regolamentazione rigida della net neutrality e vorrebbero poter differenziare il trattamento dei dati, ad esempio chiedendo un sovrapprezzo ai servizi che richiedono un uso maggiore di banda (tipicamente, quelli video come YouTube o Netflix).
Proprio a queste conseguenze potrebbe portare la deregolamentazione avviata dalla FCC lo scorso dicembre. Con l’abolizione della net neutrality, At&T come Verizon e tutti gli Internet service provider (Isp) saranno legittimati a rallentare i siti web, bloccare le app oppure addebitare tariffe extra alle società che producono contenuti per avere priorità di accesso agli schermi dei consumatori. D’altra parte, gli Isp saranno anche tenuti a rendere note ai consumatori e agli enti regolatori le loro pratiche, come i blocchi o rallentamenti di traffico (blocking e throttling) oppure l’uso di traffico prioritario a pagamento (prioritization). In questo senso, almeno secondo la Fcc, si raggiungeranno gli stessi risultati del 2015, a costi meno salati per gli operatori.
In concreto, la FCC non ha fatto altro che ripristinare il regime pre-net neutrality, restaurando la definizione di Internet come servizio opt-in. La motivazione che ha portato a questo orientamento sta nella volontà di dare nuovo slancio agli investimenti sul digitale e nell’innovazione da parte dei provider, che saranno più attivi su un mercato più libero e meno regolamentato.
La sorveglianza sui comportamenti dei fornitori di banda – ora non più vincolati alla net neutrality – è stata affidata (nuovamente) alla Federal Trade Commission (FTC) che vigilerà sulle pratiche antitrust di concorrenza sleale e pubblicità ingannevole. L’aver affidato compiti di sorveglianza a quest’agenzia governativa è uno dei motivi di attrito con i sostenitori della neutralità della rete: si teme, infatti, che l’organismo possa non avere i poteri necessari a svolgere il suo ruolo, considerato che non può comminare sanzioni.
Dallo scorso 23 febbraio, comunque, decorrono i 60 giorni utili per il Congresso per approvare una legge che ribalti la decisione della FCC. Tuttavia, è uno scenario alquanto improbabile, considerato che i democratici (ala del parlamento statunitense che sostiene la net neutrality) sono in minoranza e che, anche qualora un provvedimento simile fosse approvato, quasi certamente non verrebbe avallato dal Presidente Trump, schierato con la FCC.È dunque già l’ora del tramonto per la net neutrality? Non è detto. Assieme alle vive proteste degli Internet Giants, in tutto il Paese politici democratici, attivisti e procuratori generali di vari Stati, minacciano di fare ricorso contro la norma appena pubblicata. I primi sono arrivati già la scorsa settimana da parte di Public Knowledge, California Public Utilities Commission e un gruppo di 22 procuratori generali dello Stato guidati da Eric Schneiderman, procuratore generale di New York.
Anche dall’altra parte dell’oceano la decisione della FCC non è vista di buon occhio. Proprio ieri, durante il Mobile World Congress di Barcellona, il commissario europeo all’Agenda digitale Andrus Ansip ha difeso con forza le regole della net neutrality, in vigore in Ue dal 2016. Ansip teme che la sua abolizione possa trasformare internet in “un’autostrada super-veloce per pochi fortunati, mentre gli altri si devono accontentare di una strada sterrata”. Ansip ha preso del tutto le distanze dall’orientamento statunitense concludendo: “Non abbiamo alcun timore che le regole sull’Internet aperto siano un ostacolo agli investimenti”.
Sebbene quindi i vertici americani sembrino risoluti nel sostenere la decisione della FCC, la partita della net neutrality resta aperta su più fronti, sia interni che esteri. (V.D. per NL)