Tra vip che litigano su Instagram, elettori che insultano politici di fazioni opposte e privati cittadini detrattori delle forze dell’ordine o di gestori di ristoranti – solo per accennare agli ultimi casi di cronaca – gli episodi di violenza verbale sui social network sono tristemente frequenti.
I giornali riportano quasi quotidianamente le esperienze di vittime (più o meno famose) dei cosiddetti “leoni da tastiera”, che si dedicano all’insulto tramite post sulle bacheche pubbliche di Facebook & co. Il diffuso fenomeno ha richiesto un intervento da parte della giurisprudenza per individuare una soluzione che tutelasse i destinatari degli insulti “virtuali” e punisse i vituperatori resi temerari dalla protezione dello schermo di pc o smartphone. La soluzione è stata individuata nell’estensione del reato di diffamazione aggravato per diffusione a mezzo stampa, così come previsto dall’art. 595 del Codice penale.
Ma quando, esattamente, si integra questo reato sui social? È proprio questa la tutela più adatta? Perché vi sia diffamazione, è necessario che si verifichino contemporaneamente tre condizioni: che vi sia un’offesa alla reputazione di una persona da parte di un’altra, che tale offesa sia pronunciata in assenza dell’offeso e che la comunicazione avvenga con più persone.
Sul terzo requisito non pare possa sorgere alcun dubbio: i social – proprio come i giornali o la televisione – sono accessibili da una moltitudine di persone, in qualunque momento e contemporaneamente. Il requisito dell’assenza dell’offeso – ossia il fulcro del reato di diffamazione, che è ritenuto più grave dell’ingiuria proprio perché l’offesa viene rivolta a persona impossibilitata a difendersi a causa della propria assenza – si realizzerebbe sui social ogni qualvolta l’offesa venga inserita in un post o in un commento estemporaneo, in un contesto diverso e slegato da discussioni a cui partecipa anche l’offeso. Secondo alcuni, si potrebbe invece presumere la presenza della persona offesa (e quindi escludere l’integrazione del reato di diffamazione) se l’insulto venisse rivolto all’interno di una conversazione partecipata.
Circa l’ultimo requisito, quello dell’offensività di quanto detto in assenza della “vittima”, ci si è chiesti in dottrina se è possibile ritenere “un pericolo per la reputazione della persona” un post che, nel giro di pochi minuti, può scomparire sommerso da una moltitudine di altri contenuti. La soluzione può essere, evidentemente, solo interpretativa, anche se vale la pena far notare come, nonostante il flusso della produzione di contenuti possa essere abbondante e senza sosta, la memoria dei social media è spesso molto più lunga dello scorrimento distratto di una newsfeed: la ricerca per tag o parole chiave, la condivisione, i like, gli screenshot e i salvataggi dei post sono tutti metodi che possono riportare in auge un qualsivoglia contenuto – anche offensivo – in qualunque momento.
Il problema più serio, semmai, è quello di individuare esattamente l’autore del reato: anche qualora il messaggio diffamatorio sia pubblicato da account che riportano nome e cognome, infatti, secondo una recente sentenza della Cassazione (sentenza n. 5352/2018, Cass. Pen. Sez. V) non può scattare la condanna per diffamazione se non è accertato l’indirizzo IP da cui proviene il messaggio che offende la reputazione. Senza questa verifica, infatti, non si potrebbe stabilire, oltre ogni ragionevole dubbio, che il contenuto diffamatorio sia stato diffuso proprio dalla persona fisica le cui generalità corrispondono al nickname “incriminato” e non a terzi.A voler essere garantisti fino in fondo, resta qualche dubbio sul fatto che la verifica dell’indirizzo IP sia il criterio più adeguato a stabilire la colpevolezza: da un lato, per le difficoltà tecniche dell’accertamento (è piuttosto difficile ritenere che l’IT a disposizione della giustizia abbia sufficienti mezzi per intervenire in tutte le cause di diffamazione); dall’altro lato, perché non è difficile immaginare il furto di uno smartphone o l’intervento di terzi sul device del sospetto diffamatore. La risposta di dottrina e giurisprudenza non può che evolvere assieme alla fluida materia delle comunicazioni via internet. (V.D. per NL)