Chiamata a pronunciarsi su di un conflitto di competenza territoriale, la Corte di Cassazione (sent. n. 16377/2011, depositata lo scorso 28/04/2011) ha confermato l’orientamento in base al quale, indipendentemente dall’ubicazione del server, il reato ex art. 595, comma 3, si consuma (e deve essere perseguito) nel luogo ove terzi percepiscono l’espressione offensiva.
Un importante altro convincimento, ribadito nell’arresto in questione, è quello per cui, in aderenza con la pregressa giurisprudenza del medesimo Giudice (sent. n. 2739/2011), il reato si integra «al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano “terzi” rispetto all’agente ed alla persona offesa» e non quando il messaggio (presunto) diffamatorio viene diffuso. In altre parole – nel merito dell’ermeneutica seguita dalla Suprema Corte – una tale condotta delittuosa perpetrata sul web non viene integrata tanto dall’immissione da parte dell’agente delle informazioni denigratorie nel server del provider (che potrebbe in teoria trovarsi ovunque e magari anche all’estero) che mette a disposizione uno spazio web all’utilizzatore, ma quanto nel momento in cui queste vengono dirottate ed incanalate verso una destinazione (la rete) divenendo così “percepibili” potenzialmente a chiunque. «Ne consegue che»- proseguono gli Ermellini – «quand’anche esista un preciso luogo di partenza (il server) delle informazioni, lo stesso non coincide con quello di percezione delle espressioni offensive e, quindi, di verificazione dell’evento lesivo, da individuare nel luogo in cui il collegamento viene attivato». Ecco che allora poco senso avrebbe avviare un indagine nella Procura del luogo ove ha sede il computer centrale (stesso discorso vale nel caso della testata giornalistica telematica o tradizionale), dovendo in tali circostanze la Polizia Giudiziaria trasmettere la notizia di reato agli inquirenti del luogo dove risiede la persona offesa che ha avuto contezza della divulgazione di scritti a suo carico potenzialmente lesivi della propria dignità e reputazione. In questo senso, nel caso in cui tali informazioni rimanessero “blindate” nel server, cioè fintantoché non se ne avvii la diffusione verso il pubblico con qualsiasi mezzo, è chiaro che, non essendo la fattispecie di cui all’art. 595 c.p. un reato di pericolo, non si potrebbe, a nostro avviso, denunciare alcuna rilevanza penale in relazione al semplice immagazzinamento dei dati da parte del fornitore di servizi. Nel caso che ha visto la Suprema Corte impegnata a dirimere un conflitto di competenza territoriale sollevato dall’indagato, all’agente veniva contestata, in considerazione delle modaità di divulgazione delle notizie presunte diffamatorie, l’aggravante di cui al comma 3 dell’art. 595 proprio per il mezzo di veicolazione delle informazioni, reputate dalla persona offesa diffamatorie, costituito da un sito internet, visitabile da qualunque avventore delle rete e ritenuto anche dalla pregressa giurisprudenza di legittimità quale “mezzo di comunicazione di massa del pari degli strumenti cartacei, radiofonici, televisivi”, ai quali deve associarsi un’ampia nozione di «pubblicazione (…) atteso che l’accesso (…) è solitamente libero frequente (…) e, dunque, implica la fruibilità da parte di un numero elevato di utenti». In merito, di particolare interesse la conferma che, nonostante l’argomentazione fornita nella sentenza in questione (invero svolta prevalentemente per relationem rispetto alla pregressa giurisprudenza di legittimità) abbia in più passaggi richiamato taluni criteri identificativi propri della testata giornalistica, la Cassazione sembra mantenere – giustamente – ben distinti i differenti piani di valutazione: un conto è la rubrica di un sito internet che ospita contributi di utenti ed amministratore od il blog nella sua espressione di luogo virtuale dove si condividono impressioni estemporanee di più persone, altro l’organo di divulgazione giornalistica vero e proprio al quale fa capo un direttore responsabile. Sul punto, poi, altro recente arresto giurisprudenziale (C. Cass., sez. V pen., sent. n. 7155/2011) ha indubbiamente contribuito a delineare con maggiore vigore le sostanziali differenze tra un semplice post ed un articolo pubblicato da una testata giornalistica, in merito all’operatività ed ai limiti dell’istituto del sequestro preventivo. Come noto e come confermato dagli Ermellini, la misura cautelare è azionabile solo nei confronti di contributi presunti diffamatori divulgati in rete ma non a mezzo di testate giornalistiche per le quali vale il disposto dell’art. 1 del R.D.Lgs. n. 561/1946 (Norme sul sequestro del giornali e delle altre pubblicazioni) richiedendosi indefettibilmente il requisito della “definitivamente accertata diffamatorietà” desumibile solo da una sentenza passata in giudicato. Pertanto, maglie larghe per le contromisure che fronteggino abusi su internet e maggiori cautele dovute alla stampa. (S.C. per NL)