I milioni di italiani fruitori di Whatsapp (il programma di messaggistica istantanea che ha annichilito il business degli sms bruciando mld di euro e di dollari di traffico alle compagnie telefoniche delle quali, ironia della sorte, utilizza pure gratuitamente le reti) si saranno accorti dell’inciso che sta circolando sull’applicazione da qualche giorno.
“I messaggi che invii in questa chat e le chiamate sono ora protetti con la crittografia end-to-end. Tocca per maggiori informazioni”. Avviso che propone, appunto, la possibilità di scambiare messaggi con qualcuno che condivida uno stesso codice identificativo eliminando il rischio, con questo scambio di codici, che Whatsapp o i suoi partner d’affari possano leggerli o ascoltarli. La veridicità di quanto asserito potrà essere confutata solo col tempo: certo è che, da quando la Apple si è opposta alla richiesta di rivelare i contenuti del telefonico del pluriomicida di San Bernardino per ragioni di privacy, ha come inaugurato un nuovo indirizzo, secondo cui gli stessi tycoon del web (quelli che guadagnano grazie alle nostre informazioni, ai nostri gusti, ai nostri acquisti abituali, studiando con i “big data” e i relativi software “analitycs” i nostri comportamenti e cosa desideriamo) si ergerebbero, proprio adesso, a paladini della nostra privacy. Potrebbe affiorare una sorta di controsenso di fondo. Se guardiamo il fenomeno più da vicino, scandagliando le implicazioni annesse, ritroviamo la sua genesi nella richiesta, avanzata dalla Fbi alla Apple (e da questa respinta), di conoscere i dati contenuti nel telefonino del killer di San Bernardino. Rifiutandosi di consegnarli, la Apple si è comportata come uno stato sovrano contro un altro, quasi fosse indipendente dalla giurisdizione americana. Episodio analogo si è verificato più di recente in Italia, con Facebook come protagonista: la Procura di Reggio Emilia ha ordinato a Facebook di rimuovere la pagina “Musulmani d’Italia” dalla quale sono partite minacce ad una giornalista del Resto del Carlino, Benedetta Salsi. Facebook, comportandosi a sua volta come uno Stato sovrano, si è inizialmente opposto fermamente; in seguito (dopo un pressing del magistrato che ha scomodato anche l’Ambasciatore americano a Roma) ha ceduto, eliminando i post e mantenendo la pagina. Il Procuratore capo di Reggio Emilia Giorgio Grandinetti ha dichiarato: “Rilanceremo e faremo il possibile”, pur spiegando che le armi giuridiche italiane soffrono di debolezza contro i social network. Ad ogni modo, sembrerebbe che le “big five” (come negli Stati Uniti vengono chiamati i colossi di Internet: Google, Facebook, Apple, Amazon e Twitter) riescano sovente a trovare facili scappatoie dalle ragioni di Stato e perfino dalle esigenze di ordine pubblico. Il tutto in nome della nostra privacy che le stesse contaminerebbero da tempo, con il nostro tacito consenso, visto che noi (pur di continuare a navigare in quei siti) accettiamo l’invasione nella nostra sfera personale. Che di personale sembra avere ormai ben poco. Quando diciamo sì alle richieste di liberatoria sulla privacy lo facciamo semplicemente perché, dicendo no, si bloccherebbero i sistemi: sono scelte libere per finta. Le autorità hanno autorizzato i tycoon a proporre a noi utenti perché irretite, o comperate, dai medesimi tycoon. Ecco il controsenso. Questa è la situazione attualmente prospettatasi: se Apple si oppone alla Fbi, se Facebook ignora l’ordine di una procura (che, si fosse trattato di un libro o di un giornale cartacei, ne avrebbe immediatamente chiesto il sequestro generale) siamo di fronte al segno che questo stati sovrani del web hanno cinto d’assedio la nostra libertà. “Quid est libertas? Potestas vivendi ut velis”, diceva il grande Cicerone. Mai parole potrebbero essere più attuali. (S.F. per NL)