(Punto Informatico) – Roma – La crisi incombe, la gratuità che non sia sorretta da un solido modello di business non rappresenterà più un’architettura sostenibile per coloro che operano in rete. A paventarlo in un articolo sul Wall Street Journal è Chris Anderson, teorico della “coda lunga” ed esperto delle dinamiche di rete. E se certi modelli di business arrancano sotto il peso delle recessione, c’è chi non esita a suggerirne di nuovi e suggestivi: Facebook potrebbe vendersi agli inserzionisti, Facebook potrebbe assumere i contorni di un panel globale di consumatori da sottoporre ad indagini di mercato.
I beni digitali possono essere replicati senza costo alcuno, la rete consente di raggiungere gli anfratti più remoti di un mercato sconfinato, i servizi possono catturare l’interesse di investitori e di inserzionisti: per questo motivo Anderson da tempo sottolinea il valore dei modelli di business basati sulla gratuità, circuiti economici in cui a pagare è un soggetto terzo rispetto all’utente ordinario. Ma la recessione incombe: i venture capitalist, ricorda ora Anderson, esitano ad investire; i colossi della rete operano potature e sfoltimenti piuttosto che andare a caccia di nuove idee e aziende da acquisire.
Guadagnarsi una buona reputazione nel tentativo di racimolare l’attenzione di prodighi investitori non ora è una strategia facilmente perseguibile per le startup, avverte Anderson: offrire gratuitamente i propri prodotti ai cittadini della rete in attesa che un colosso decida di trasformare l’idea in un modello di business non è una strada che si possa decidere di battere in maniera spensierata per un’azienda che non può contare su spalle larghe e casse pingui.
Per le aziende che in rete non siano state in grado di inventarsi una tattica per fare cassa, ricorda il teorico della long tail, per le aziende che non possono più sperare nell’epifania di un venture capitalist, c’è la pubblicità. Una pubblicità che non offre però un sicuro ritorno di investimenti alle imprese web. Non basta poter contare su una vasta platea di utenti, non basta nemmeno offrire agli inserzionisti dei bersagli mirati, se gli utenti non sono proni a cliccare. Anderson chiama in causa Facebook: gli inserzionisti sono disposti a pagare poco perché i netizen tendono a non lasciarsi avvincere dall’advertising che popola pagine e profili.
La pubblicità non sembra sempre essere risolutiva, così come non è credibile sperare nell’avvento di colossi della rete in vena di shopping: nonostante Anderson preveda che i modelli di business basati sulla gratuità si esauriranno, suggerisce alle aziende web di dare fondo alla propria creatività e di dare ai propri utenti un motivo per spendere.
È in questo clima di incertezza e di apprensione che si innesta quella che il Telegraph ha definito come l’occasione per Facebook di chiudere i propri bilanci in attivo. Non si tratta di striscianti meccanismi di advertising invasivi e relazionali: Facebook starebbe per diventare “uno dei più grandi database per le ricerche di mercato”. Le aziende, prospetta il Telegraph, potrebbero individuare i propri target sulla base dei profili condivisi dagli utenti e potrebbero sottoporli a sondaggi presumibilmente rappresentativi incentrati su prodotti e servizi.
Se è vero che Facebook ha mostrato presso il World Economic Forum di Davos le potenzialità del proprio servizio di poll, non è altrettanto verificabile che i vertici del social network intendano consegnarlo nelle mani di analisti e inserzionisti. Un portavoce di Facebook ha chiarito: si è trattato di un malinteso, il social network non si è ancora ritagliato un modello di business che sappia convertire il successo di pubblico in denaro sonante.
Gaia Bottà