La responsabilità di coloro che sono definiti “prestatori di servizi nella società dell’informazione” è materia che, a livello europeo, è – dai tempi della rivoluzione tecnologica creata da Internet – oggetto di ampio dibattito in quanto regolamentata dalla direttiva sul commercio elettronico, la 2000/31/CE.
Essa è l’unico riferimento normativo in materia di responsabilità civile che è stato recepito in Italia dal D. Lgs. 70/2003. Come sempre, quando si parla di Internet, sono contrapposte due grandi interessi: sia quelli dei fornitori di servizi che non intendono essere ritenuti responsabili per attività illecite compiute dai propri utenti; sia quelli di coloro che temono le potenzialità lesive della rete, preoccupati che Internet rimanga uno spazio privo di regole e di responsabilità. E’ in questo campo che si giocano tutte le partite attinenti all’uso e alla regolamentazione della rete, ai contenuti e alle forme di utilizzo. Ad un primo sguardo, gli articoli che interessano il caso di specie sono quelli dal 12 al 14 della richiamata Direttiva. La disciplina stabilisce infatti che, in presenza di determinate condizioni, il prestatore di servizi non risponde degli illeciti on-line commessi dagli utenti. Ciò equivale ad affermare che quest’ultimo può essere condannato a risarcire il danno soltanto se ha volutamente consentito che si verificasse una delle condizioni che fanno scattare la sua responsabilità. In particolare, è l’art. 14 che integra la fattispecie di cui al caso “Google” e, segnatamente, l’attività di hosting. Vediamolo: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione; b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”. Ciò che non può essere trascurato è il fatto che alcuni principi che, in ogni caso, un ordinamento giuridico moderno non può trascurare di perseguire, rischiano di venire sacrificati alla logica del profitto e del massimo sfruttamento delle risorse. Uno fra tutti, la difesa dei soggetti deboli. E’ qui che, a prescindere dalle considerazioni di ordine giuridico, entra in gioco l’ordine morale che deve essere svincolato da logiche economiche e di sfruttamento tecnologico. In una società moderna e compiutamente organizzata, i cui rapporti sono non soltanto regolati da norme ma anche da precetti morali, un evento come quello che oggi ha travolto Google ed i suoi vertici italiani non si sarebbe dovuto verificare. L’idea che ogni comportamento non regolamentato sia lecito per definizione o il fatto che Internet sia presa a modello di libertà assoluta senza vincoli, dovrebbe spaventarci e farci riflettere sulle reali implicazioni che un uso smodato della libertà senza morale può comportare. Più che un problema di ordine giuridico, ritengo personalmente che la questione affondi le radici nella primordiale battaglia tra bene e male, tra ciò che è giusto “per noi stessi” e ciò che non lo è “per gli altri”. La sensazione netta è che i principi che da sempre hanno governato l’agire degli individui, in un sistema di relazioni interpersonali, si siano assottigliati enormemente perché soffocati dalla necessità – portata agli estremi – di veicolare per forza qualunque contenuto, con l’idea di base che tutto è per tutti sempre e comunque. A parere di chi scrive, quindi, non è tanto lo staff di Google a dover essere messo sotto inchiesta, piuttosto l’etica e la morale dei giorni nostri, sfilacciate e impoverite da comportamenti vergognosi come il desiderio di filmare e veicolare immagini dense di violenza psicologica oltreché fisica. Quasi come se il desiderio di spettacolarizzazione di ogni evento – privo però dei principi fondanti il diritto di cronaca – fosse il minimo comun denominatore della nostra società “moderna”. (M.P. per NL)