Dopo Google e Apple, adesso è il turno del social network Facebook. In data 9 maggio, la polizia tributaria di Milano ha fatto visita alla filiale italiana del colosso del web, Facebook Italy Srl, per perquisirne gli uffici e sequestrarne documenti. La compagnia del social network più famoso al mondo avrebbe raggiunto i suoi colleghi digitali presunti rei di omessa dichiarazione e di evasione fiscale. Prima faciae, le società Facebook Inc. (fino a settembre 2010) e Facebook Ireland Limited (dal 2010 in poi) abbiano operato in modo anomalo in Italia, evitando di versare tasse in relazione all’ammontare dei loro ricavi. Al momento, risulta che Facebook abbia versato 200 mila euro di imposte su 225 milioni di euro in ricavi, di cui 8 tassati (e dichiarati) in Italia e il resto in Irlanda (dati di raccolta pubblicitaria forniti dall’Autorità per le comunicazioni – fonte articolo del quotidiano Il Giorno). Stessa sorte è toccata all’azienda di Mountain View Google, la quale ha recentemente deciso di placare gli animi con il fisco italiano pagando una somma di 306 mln di euro per imposte arretrate tra il 2002 e il 2015 (oltre 303 milioni sono attribuiti a Google Italy e meno di 3 milioni a Google Ireland) e di attivare una Apa (acronimo che sta per Advance Pricing Agreement, accordo utile a ridurre il grado di incertezza nei rapporti tra i diversi ordinamenti tributari) secondo le regole Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per tassare i profitti prodotti in Italia; ancora prima di Google, la Apple che sborsò un assegno di 318 milioni (per tasse dovute tra il 2009 e il 2014). Sono in corso, invece, le indagini su Amazon (sospettata per un’evasione fiscale di
130 mln di euro nel periodo 2011-2015) e Airbnb (portale online per la prenotazione di affitti tra privati) che da maggio, insieme alle agenzie che operano nel settore, sarà obbligato a trattenere una percentuale del 21% sulle entrate da versare allo Stato (la famosa cedolare sugli affitti turistici che al momento è in corso d’opera) a fronte di una manovra di governo che prevede il pagamento di una multa che va da 250 a 2.000 euro per chi non dovesse aderire alla normativa (fonte articolo La Stampa). Il problema è comune a molte digital company: “Gli intermediari del web per ora sfuggono del tutto, perché hanno sempre sedi all’estero, magari in Irlanda o a Lussemburgo (dove la tassazione è più favorevole, Ndr). Hanno solouna decina di dipendenti in Italia e fatturano milioni. Nel tempo del digitale puoi fare centinaia di milioni di business anche con un dipendente. E’ il tema della <<web-tax>>: devi pretendere che anche con un solo dipendente, uno debba emettere fattura nel luogo dove ha erogato il servizio”, spiega il presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia, autore di un emendamento sul tema in attesa di conferma: proporre alle web company di accettare di essere considerate dal fisco italiano una “stabile organizzazione” (sede fissa di affari per mezzo della quale un’impresa esercita in tutto o in parte la propria attività sul territorio di un altro Stato) e, dunque, pagare l’Iva sul fatturato prodotto nel paese. Proprio di web tax si è parlato al G7 dei ministri delle Finanze, riunitisi a Bari dall’11 al 13 maggio, con l’obiettivo di aprire un confronto sul tema in modo che si possa iniziare a discutere concretamente dell’argomento in vista di un rapporto ad hoc da presentare l’anno prossimo a livello Ocse. (L.M. per NL)