A partire dal 15 febbraio 2018, il browser Chrome di Google sta attuando una politica di advertising block captive (cioè attuata attraverso un’applicazione autonoma, senza la contribuzione di strumenti indipendenti di inibizione della pubblicità indesiderata), con l’intento (tendenzialmente) etico di rendere la navigazione sul web più semplice e sicura.
Non basta: sui siti che non rispettano i protocolli di garanzia definiti dalle associazioni di pubblicità di concerto con quelle degli utenti, Chrome inibirà tutti gli annunci, dichiaratamente “senza concessione alcuna”, quindi (in astratto) compresi quelli in house (cioè di Google).L’Over The Top di Mountain View ha descritto il cambiamento come uno sforzo collettivo del settore per liberare internet da spam e pop-up, rendendo invece altre tipologie di pubblicità più allettanti per i naviganti. Sennonché, nonostante i buoni propositi, sono in molti a contestare a Google le modalità con cui ha definito gli standard per selezionare le pubblicità da conservare da quelle da scartare.
In particolare, i detrattori sostengono che l’azienda californiana stia semplicemente tentando di salvaguardare i propri interessi, persuadendo gli inserzionisti a preferire Google in quanto meno propenso all’utilizzo degli strumenti di ad block incontrollabili (da Google). Il piatto è infatti ricco ed irrinunciabile: per il web search engine fondato nel 1997 da Larry Page e Sergey Brin, la pubblicità è la maggiore fonte di ricavi (lo scorso anno ha generato circa 95 miliardi di dollari).
“Google sta utilizzando la sua forte posizione nel mercato dei browser per impedire agli utenti di usare app di parti terze che bloccano le pubblicità spinte dal motore di ricerca più famoso del mondo”, ha dichiarato alla stampa USA Gary Reback, un avvocato della Silicon Valley specializzato in politiche antitrust che rappresenta un produttore indipendente di applicazioni “ad-blocker” (che già aveva denunciato all’Antitrust europea il comportamento anti concorrenziale di Google).
L’OTT tuttavia, rispedisce l’accusa al mittente negando di avere un’influenza dominante sul mercato di specie, essendo meramente parte di una “coalition for better ads”, cioè un soggetto portatore di interessi diffusi nell’ambito dell’advertising che ha stabilito un protocollo “best practice” teso a catalogare le pubblicità ritenute più fastidiose dagli utenti e che fanno decidere a questi ultimi di adottare un ad blocker. (E.L. per NL)