Le offese via chat WhatsApp integrano il reato di diffamazione. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, Sezione V penale, nella sentenza n. 7904/2019, con la quale ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del Giudice delle Indagini Preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Bari del 18/01/2018, che ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti dell’indagato per il delitto di cui all’art. 595 Codice penale (norma che disciplina il reato di diffamazione), trattandosi di persona non imputabile perché minore di 14 anni al momento del fatto.
Il punto fondamentale della sentenza nella quale la Suprema Corte ha stabilito il nuovo principio per il quale si configura la diffamazione sulla chat è il seguente: “L’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non integra l’illecito di ingiuria, ma il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet’) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi – fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”.
Questa tuttavia non è l’unica pronuncia di legittimità che ha trattato il tema dell’illecito di diffamazione sul web.
Merita di essere menzionata anche la sentenza n. 16564/2019, con la quale la Sezione V penale della Corte di Cassazione ha specificato che la diffamazione può commettersi non solo sui social network, ma anche sui blog: le dichiarazioni lesive rilasciate ad un blogger configurano, infatti, l’ipotesi di diffamazione aggravata, dovendosi considerare il sito web di quest’ultimo alla stregua di una testata giornalistica, costituendo un veicolo pubblicitario che ha come obiettivo quello di raggiungere un numero indeterminato di persone.
Così hanno sottolineato gli ermellini: “Mentre la diffusione di una dichiarazione lesiva della altrui reputazione attraverso siti web, diversi da quelli delle testate giornalistiche (blog, social media, altre piattaforme internet) integra non una diffamazione semplice di competenza del giudice di pace ma un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata ‘con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’ diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non possa dirsi posta in essere ‘col mezzo della stampa’, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”.
Per la Suprema Corte, quindi, “è indubbio che rilasciare dichiarazioni ai blogger implichi non solo la consapevolezza ma anche il proposito della pubblicazione delle stesse sul web”. (G.S. per NL)