C’era volta il web e la prima generazione di web company. Quelle che cercavano di attrarre visitatori sul proprio sito, offrendo servizi e contenuti tipicamente gratuiti e facendo soldi grazie agli investimenti pubblicitari. Su questo modello di business si sono costruite le fortune dei siti più popolari da noi visitati quotidianamente. E quelle delle compagnie che si occupavano di vendere spazi pubblicitari online. Per un certo periodo anche gli editori si erano lasciati abbagliare da questa promessa di lauti guadagni. Salvo poi riconoscere che non è così facile “stare in piedi” solo grazie alla pubblicità. E di questo si sono accorti un po’ tutti a seguito della recente Grande Crisi, che porta con sé un bastimento carico di riflessioni. Anche nel Paese dove più persone al mondo integrano il proprio reddito curando un blog. A quanto pare, a seguito del drastico calo di investimenti in pubblicità, i venture capitalist d’oltreoceano non sarebbero più disposti a investire in start-up di web company il cui modello di business prevede solo introiti generati dalla raccolta pubblicitaria. Alle start-up si richiede di diversificare i canali da cui raccogliere le entrate. E di non pensare di vivere ancora all’interno di quella bolla economica di qualche anno fa. Per cui, sostengono gli esperti dell’edizione odierna del NYTimes online, conviene pensare ad offerte multilivello, nonché a segmentare gli utenti a seconda dei loro usi e forme di consumo, per riuscire delineare forme di abbonamento multi livello e servizi a pagamento di vario genere. Insomma, tutto quello che è stato già fatto da Murdoch per il Wall Street Journal online. Ma New York nessuno lo ammette. (Davide Agazzi per NL)