Otto anni di governo socialista avevano portato l’economia ungherese sul lastrico, a un passo dalla bancarotta. Le elezioni dello scorso aprile, poi, avevano portato alla schiacciante vittoria del partito destrorso, guidato da Viktor Orban, già capo dello Stato dal 1998 al 2002.
I risultati erano stati “bulgari”, con i socialisti ridotti al lumicino – con meno del 20% delle preferenze – e Fidesz, il partito di Orban, che otteneva con la maggioranza assoluta dei seggi. La tornata aveva anche segnato il primo, storico, ingresso in Parlamento di Jobbik, il partito di estrema destra nazionalista. Otto mesi di governo di Fidesz, però, invece di iniziare a risollevare il Paese dalla situazione drammatica in cui si trovava, l’hanno fatto sprofondare in una crisi ancor più evidente perché, oltre a toccare le tasche degli ungheresi, ne ha intaccato anche le libertà fondamentali, riconquistate a fatica appena vent’anni fa, con la fine dell’Unione Sovietica. In realtà, la svolta autoritaria che Fidesz ha portato in Ungheria era ampiamente preventivata. Quando, infatti, la situazione economica e occupazionale è così critica, com’è oggi nel paese magiaro, i cittadini giungono a sperare che un governo “forte” possa risollevarli dal baratro in cui il liberalismo o il liberal-socialismo, come nel caso ungherese, li ha trascinati. Questo a testimonianza che, a volte, la storia non insegna proprio niente. Negli ultimi mesi e settimane l’Unione Europea ha iniziato a sollevare la questione ungherese a livello internazionale. Dapprima per una serie di avvisaglie autarchiche (come la decisione governativa di incentivare con sgravi fiscali le aziende nazionali, penalizzando e spesso spingendo all’abbandono del territorio le grandi e piccole aziende straniere che avevano investito nel mercato magiaro), poi l’annunciata volontà di Orban di rivedere la Costituzione, poi ancora il pugno duro xenofobo contro l’ampia minoranza rom residente nel Paese e la decisione di concedere doppia cittadinanza e diritto di voto agli ungheresi nati fuori dai confini nazionali, avevano attirato a più riprese l’attenzione di Bruxelles. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, però, è arrivata alla vigilia di Natale, con la legge, approvata il 20 dicembre e promulgata il primo gennaio, che imbavaglia l’informazione locale. Il tutto, pochi giorni prima dell’inizio del semestre ungherese alla guida del Parlamento Europeo, appena iniziato, e che vedrà un governo appena insediatosi in un Paese che ancora non utilizza l’euro e che da poco è entrato a tutti gli effetti tra nei gruppo dei ventisette, fronteggiare una delle più gravi crisi dell’euro dall’inaugurazione della moneta unica. Probabilmente, nei piani di Orban, c’è proprio il tentativo di evitare figuracce e proteste dettate dalla sovraesposizione internazionale che l’Ungheria subirà nei prossimi mesi. La stampa interna, infatti, ce l’ha a morte con il governo e con le sue tendenze autoritarie: zittirla sarebbe la soluzione dell’esecutivo di destra per far passare i sei mesi di presidenza Ue senza scandali particolari che potrebbero intaccarne la posizione in Europa. La realtà, però, è molto diversa dai propositi: da quando il 20 dicembre è stata votata – grazie a una maggioranza assoluta in Parlamento -, la cosiddetta “legge bavaglio” ha concentrato le attenzioni europee sull’Ungheria. In particolare, la vicepresidente della Commissione Ue, Neelie Kroes, ha inviato una lettera al Capo di Stato ungherese, in cui chiarisce la posizione comunitaria, apertamente contraria al provvedimento. Ad ogni modo, la legge consiste nell’istituzione di una nuova autorità nazionale per i media e le comunicazioni – i cui membri sono stati nominati direttamente dall’esecutivo – che si occuperà di vigilare sull’informazione e di punire l’eventuale produzione di notizie “immorali” o “non equilibrate”. Le pene prevedono multe che vanno dai 90.000 euro per la stampa ai 150.000 per radio e televisione; il che vuol dire che, rapportate alla realtà economica ungherese, queste cifre comporterebbero la chiusura della gran parte degli organismi informativi, qualora questi violassero la norma. Con l’inizio del nuovo anno è anche giunto il primo caso di “bavaglio”, applicato ai danni del giornalista radiofonico Attila Mong, che all’inizio del suo giornale radio del mattino ha tenuto un minuto di silenzio – per protesta contro la legge – ed è stato licenziato in tronco dalla sua emittente. Insomma, al termine di un anno travagliato, che ha segnato una svolta antidemocratica per il Paese, questa legge rappresenta un vero e proprio “schiaffo in faccia” al popolo ungherese, come lo ha definito il quotidiano tedesco “Die Welt”. La comunità internazionale, la Commissione Europea e l’Api – l’Association de la Presse Internationale – hanno duramente contestato la decisione, accompagnando l’esordio di Viktor Orban alla presidenza Ue con molti dubbi e altrettante polemiche circa la sue aderenza alle direttive europee (che lui, nella lettera di risposta al Commissario Ue, ha dichiarato di seguire), visto e considerato, in aggiunta, il suo comportamento nei confronti delle minoranze etniche del Paese. A livello interno, invece, il Nepszabadsag – quotidiano filo-socialista tra i più autorevoli d’Ungheria – ha aperto il primo numero dell’anno con una prima pagina bianca e la scritta, tradotta in ventiquattro lingue europee, “La libertà di stampa muore in Ungheria”. Per il 14 gennaio, intanto, è stata organizzata a Budapest, a partire dalle ore 18, una grande manifestazione di massa per protestare contro lo “schiaffo in faccia” alla libertà d’espressione del Paese. (G.C. per NL)