Se ne sarebbe infischiato, anche oggi, alla soglia dei cent’anni, di festeggiare il suo compleanno. Salute permettendo, si sarebbe recato in redazione alle 7 e mezza e avrebbe iniziato a lavorare.
Oggi Indro Montanelli avrebbe compiuto novantanove anni, quasi un secolo. Lui, che di questo secolo rappresenta uno dei massimi testimoni, uno di quei pochi eletti che l’hanno potuto vivere così intensamente e così a lungo, che l’hanno potuto raccontare. Quando si parla di Montanelli la prima cosa che viene in mente a tutti è: Montanelli era un giornalista libero, non aveva padroni, non li amava, non li aveva mai accettati. In realtà di padroni, nei settant’anni di carriera, ne aveva avuti tanti e con tanti di loro aveva avuto contrasti. Anche di bandiere, si diceva, ne aveva avute tante, ma in realtà probabilmente non ne aveva avuta nessuna. Era stato fascista convinto della prima ora, s’era arruolato volontario in Africa e in Spagna, dove era avvenuta la sua conversione. Sospeso dal partito e privato del tesserino da giornalista, era passato in Giustizia e Libertà nel 1943, giusto in tempo per godersi l’8 settembre da una prospettiva diversa. Arrestato dai tedeschi e condannato a morte (evento, questo, recentemente messo in discussione dall’opera di un ricercatore italiano), era stato liberato dietro pagamento di una cauzione, di una bustarella, ad un generale delle SS. Dopo la guerra, osteggiato dai non fascisti per essere stato una camicia nera e dagli ex fascisti per essersi convertito, aveva dovuto ricominciare da zero o quasi. Riuscendo, comunque, a ritornare ai vertici del giornalismo italiano. Abbandonata la sua storica poltrona al Corriere della Sera nel 1973, a seguito di una sferzata a sinistra del giornale, ora diretto da Pietro Ottone, dopo una breve parentesi a La Stampa, aveva fondato un giornale tutto suo: il Giornale nuovo, ricevendo finanziamenti dalla Montedison. Era sempre stato avverso ai partiti di sinistra e al Partito Comunista. Celebre la sua affermazione (che in realtà riprendeva un’affermazione di Gaetano Salvemini): “turiamoci il naso e votiamo DC”. Osteggiatore del compromesso storico, Montanelli fu tacciato, probabilmente a ragione, d’essere un giornalista di destra. Di un certo tipo di destra, però, non certo di quella di palazzo, ma di quella che perlomeno ragiona con la propria testa.
Parlare oggi di Montanelli, in un articolo, sarebbe come riassumere la storia del ventesimo secolo in un saggio. Sarebbe un’operazione superficiale. Parlare dell’attentato delle Brigate Rosse negli anni settanta, del matrimonio con Berlusconi, della loro separazione consensuale quando questo entra in politica, dei successivi screzi (che avevano fatto di Montanelli uno dei primi, involontari, simboli dell’antiberlusconismo, sovente chiamato in causa, ancora oggi), del no alla direzione del Corriere, del no a Cossiga che lo voleva senatore a vita (“Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza”, ebbe a dire al Messaggero riguardo il suo rifiuto all’allora Capo dello Stato), della fondazione del quotidiano La Voce, fucina di tante penne che oggi infiammano i quotidiani italiani. Montanelli è, in un certo senso, il giornalismo italiano del novecento. Quella sua foto degli anni trenta, con la macchina da scrivere sulle ginocchia, seduto a scrivere un pezzo sugli scalini d’un palazzo, è un po’ l’emblema del giornalismo di quegli anni, e non solo. Oggi Montanelli avrebbe novantanove anni, e sarebbe curioso di confrontarsi con questo nuovo terreno impervio che è il giornalismo online, per lui, che aveva iniziato a scrivere quando gli articoli si scrivevano con la penna e si inviavano col telegrafo. L’aveva conosciuto, ai suoi albori, il giornalismo online ma, scomparso nel 2001, non aveva avuto l’opportunità di osservarne il boom. Ci piace immaginarlo interessato e preconizzatore dei futuri scenari dell’informazione sul web. Non sarebbe stato certo un apocalittico Montanelli. Suvvia, non lo era mai stato. (G.M. per NL)