Un caso che probabilmente farà giurisprudenza. L’Alta Corte ha respinto la richiesta di anonimato avanzata da un blogger britannico, ex poliziotto, che all’interno del suo blog commentava fatti ed avvenimenti dei colleghi, casi giudiziari ancora aperti o dei quali aveva ricevuto l’incarico nel passato, senza curarsi minimamente delle eventuali implicazioni e conseguenze.
Contava, infatti, sul proprio anonimato. Ma la giustizia inglese ha considerato, a tutti gli effetti, l’attività di un blogger come “attività pubblica”, in quanto fonte di notizie accessibile a tutti e non “foglio clandestino”. E a pensarci bene, potrebbe non essere poi così sbagliato. Infatti, nel momento in cui il blog assume visibilità, gli utenti si moltiplicano ed i commenti anche, mantenere l’anonimato priva la notizia pubblicata di quel sapore di verità che invece possiede il commento sottoscritto dal suo autore; in effetti prendersi la responsabilità di ciò che si scrive, soprattutto quando i commenti attengono a fatti realmente accaduti, non è un principio peregrino. Diversamente, si potrebbe obiettare che per quanto controverso, l’anonimato resta un fondamentale strumento per la libertà di espressione, soprattutto in quei paesi, come la Cina, dove tale libertà non è garantita. In Italia, invece, dove l’aria che si respira è certamente diversa, questo argomento tiene banco soprattutto in riferimento alla nuova norma contenuta nel DDL intercettazioni, che prevede l’obbligo di rettifica – già previsto per la carta stampata – per qualsiasi tipo di pubblicazione on-line, blog compresi, attualmente in discussione in Parlamento. (L.B. per NL)