Prosegue la matrona dell’Esecutivo per accorciare i tempi della giustizia, ritenuti uno dei più rilevati elementi disincentivanti allo sviluppo degli investimenti nel nostro Paese.
Giuste le premesse, non propriamente condivisibili i nuovi criteri introdotti nella normativa interente il risarcimento del danno patito dal cittadino per l’eccessiva durata dei processi. Dopo l’approvazione della Camera, è ora al Senato il disegno di legge di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), nel quale il Governo ha previsto modifiche alla disciplina delle impugnazioni nel processo civile ed alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile). Andando per ordine, interessa in particolare l’art. 54 del ddl contenente una novella al codice di procedura civile. Viene, infatti, inserito l’art. 348 bis, a mente del quale “(…) l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”, eccetto per i casi nei quali la legge prevede l’intervento in causa del Pubblico Ministero (art. 70 c.p.c.) o nelle vertenze in cui la parte abbia optato in primo grado per il procedimento sommario di cognizione. Tale delibazione è riservata al medesimo Giudice investito dell’impugnazione che, sentite le parti, deve pronunciare con ordinanza “succintamente motivata” – avverso la quale è consentito il ricorso alla Corte di Cassazione – l’inammissibilità del gravame proposto. Diversamente, il processo prosegue con la trattazione del merito, senza l’adozione di alcun provvedimento. Insomma, un vero e proprio filtro, congegnato dal legislatore al fine di ridurre l’attuale carico giudiziario, ove, nel 68% dei casi, in sede di impugnazione viene confermata la sentenza di primo grado. Al fine di rendere agevole per la Corte d’Appello la preliminare valutazione sull’ammissibilità del gravame, il Governo chiede di modificare l’art. 342, comma 1, c.p.c. Nella nuova e più puntuale formulazione proposta, l’atto di appello sarà più essenziale, dovendo contenere – oltre, ovviamente, alle indicazioni prescritte per una comune citazione – una motivazione nella quale l’appellante sarà tenuto a precisare le “(…) parti del provvedimento che si intendono appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado” (art. 342, comma 1, n. 1), “(…) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata” (art. 342, comma 1, n. 2). Quanto ai nuovi mezzi di prova, il novellato comma 3 dell’art. 345 sottrarrà al Collegio la possibilità di valutarne l’ammissibilità, consentendola nel solo caso in cui la parte dimostri di non averli potuti produrre nell’ambito del giudizio di primo grado per causa alla stessa non imputabile. Tali regole varranno anche per le impugnazioni nelle controversie in materia di lavoro, con la pedissequa modifica dell’art. dell’art. 434, comma 1, che assumerà una formulazione identica al nuovo art. 342, comma 1, c.p.c. Un’ultima precisazione la merita il procedimento sommario di cognizione, sotto la cui egida un precedente intervento legislativo di semplificazione dei riti (D.Lgs 1 settembre 2011, n. 150) ha portato la celebrazione di molti procedimenti extra codicistici (liquidazione degli onorari di avvocato, mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini dell’Unione Europea, ecc…). Al di fuori di questi casi particolari, ai quali continuerà ad applicarsi la legge speciale ed i cui provvedimenti conclusivi rimarranno impugnabili in sede di legittimità, la cognizione sommaria della causa precluderà alla Corte d’Appello la pronuncia sull’inammissibilità (ovviamente al di fuori dei casi nei quali la stessa ovvero l’improcedibilità del giudizio debbano essere dichiarati con sentenza), operando la riforma solo una limitazione per quanto afferente i mezzi di prova (art. 702 quater), ammissibili se ritenuti “indispensabili” dal Collegio; con tale intevento, dunque, scomparirebbe la ben differente valutazione circa la rilevanza degli stessi. Venendo, infine, alla “legge Pinto”, la relazione al ddl stima in 200 milioni di euro i risarcimenti liquidati nel 2011 per la violazione del diritto dei cittadini italiani ad un “giusto processo”, risorse che agevolerebbero un intervento restrittivo sull’emorragia degli esborsi, in direzione di una “diretta e significativa incidenza sul contenimento della spesa pubblica”. La competenza per tali controversie sarà in unico grado della Corte d’Appello, con un meccanismo simile a quello del procedimento per decreto ingiuntivo: il ricorso verrà deciso con decreto motivato e sulla base delle allegazioni della sola parte ricorrente. Limiti vengono posti alla quantificazione del risarcimento (art. 55 D.L. 22 giugno 2012, n.83) che non potrà eccedere – salvo casi particolari – la misura ordinaria “(…) non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anni superiore a sei mesi, che eccede il termine di ragionevole durata del processo”, quest’ultimo fissato per i processi ordinari (civili e penali) in tre anni per il primo grado, due per il secondo ed uno per l’eventuale giudizio di legittimità; in quelli di esecuzione tre anni ed, infine, sei anni per le procedure concorsuali. (S.C. per NL).