Come già illustrato in precedente articolo su queste pagine, in una recente interessante sentenza la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha così deciso: la normativa italiana che impedisce la pubblicità dei trattamenti medico-chirurgici solo sulle reti nazionali, permettendola, invece, su quelle locali, ostacola la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi.
Vediamo più in dettaglio la sentenza della Corte.
La sentenza nasce da una controversia tra una società di diritto spagnolo operante nel settore della fornitura di trattamenti estetici, comprensivi di prestazioni mediche e chirurgiche e un’agenzia pubblicitaria a cui è stato dato incarico di realizzare una campagna pubblicitaria dei suoi trattamenti medico-chirugici sulla rete nazionale italiana Canale 5.
Dopo aver incassato l’acconto l’agenzia pubblicitaria comunica alla società spagnola che ai sensi della legislazione applicabile in Italia, essa si trova nell’impossibilità di realizzare gli annunci pubblicitari previsti nel contratto su una rete televisiva a diffusione nazionale, proponendo di ricercare spazi pubblicitari su reti televisive locali, previa maggiorazione del prezzo convenuto.
La società spagnola decide quindi di chiedere giudizialmente la restituzione dell’acconto e la risoluzione del contratto. Il Giudice di Pace di Genova, chiamato a decidere sulle richieste della società spagnola, decide di adire la Corte di Giustizia CE per comprendere se sussiste un contrasto tra la normativa italiana in materia di pubblicità dei trattamenti medico-chirurgici, ed i principi comunitari sulla libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi.
All’epoca dei fatti le disposizioni italiane in materia di pubblicità di trattamenti medicochirurgici erano contenute nella legge n. 175/92 (e relativo decreto di attuazione).
Ai sensi dell’art. 4 di tale legge, la pubblicità concernente le case di cura private è consentita mediante targhe o insegne apposte sull’edificio in cui si svolge l’attività professionale nonché con inserzioni sugli elenchi telefonici e sugli elenchi generali di categoria, attraverso periodici destinati esclusivamente agli esercenti le professioni sanitarie, attraverso giornali quotidiani e periodici di informazione e le emittenti radiotelevisive locali, con facoltà di indicare le specifiche attività medico-chirurgiche e le prescrizioni diagnostiche e terapeutiche effettivamente svolte, purché accompagnate dall’indicazione del nome, cognome e titoli professionali dei responsabili di ciascuna branca specialistica.
In sostanza, la pubblicità televisiva relativa ai trattamenti medico-chirurgici effettuati all’interno di strutture sanitarie private è consentita unicamente sulle reti televisive locali, con la conseguente esclusione della stessa sulle reti televisive a diffusione nazionale.
In ambito comunitario, la normativa è disciplinata dalla Dir. 89/552/CEE (cd Televisione Senza Frontiere), che ha come scopo quello di coordinare le disposizioni nazionali relative alla pubblicità televisiva.
Ai sensi dell’art. 12, lett. d), della direttiva, la pubblicità televisiva e le televendite non devono indurre a comportamenti pregiudizievoli per la salute o la sicurezza. Pertanto, il successivo art. 14 vieta la pubblicità televisiva dei medicinali e delle cure mediche disponibili unicamente con ricetta medica nello Stato membro alla cui giurisdizione è soggetta l’emittente televisiva. Il divieto opera anche nei confronti delle televendite di cure mediche.
La Corte ha rilevato che dal raffronto tra la normativa nazionale e quella comunitaria rileva che il divieto di pubblicità previsto dalle disposizioni italiane è più ampio rispetto a quello contemplato a livello comunitario.
Tale situazione, ha precisato la Corte, non è precluso a priori dalla Direttiva 89/552/CEE, ma la possibilità di emanare norme più rigorose deve avvenire nel rispetto delle libertà fondamentali del Trattato.
Questa è la schematizzazione del ragionamento della Corte circa la violazione delle libertà fondamentali da parte della legislazione italiana:
– la Corte ha più volte dichiarato che devono essere considerate come restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, sancite rispettivamente dagli artt. 43 CE e 49 CE, tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tali libertà;
– un regime di pubblicità come quello previsto dalla legge n. 175/92, il quale sostanzialmente vieta la diffusione sulle reti televisive a diffusione nazionali della pubblicità relativa ai trattamenti medico-chirurgici effettuati in strutture sanitarie private, costituisce, per le società stabilite in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana un serio ostacolo all’esercizio delle loro attività in Italia;
– tale regime, osserva la Corte, essendo idoneo a rendere più difficile l’accesso di tali operatori economici al mercato italiano, è in contrasto con gli artt. 43 e 49 TCE;
– ciò posto, occorre stabilire se le restrizioni poste dalla disciplina italiana alla libera circolazione delle persone, possano essere giustificate da un’esigenza imperativa superiore;
– ai sensi dell’art. 55 TCE la tutela della salute rientra tra le ragioni imperative di interesse generale idonee a giustificare restrizioni alla libera circolazione; pertanto, l’esigenza di tutelare la salute dei cittadini europei potrebbe giustificare una restrizione alla pubblicità dei trattamenti medico-chirurgici;
– se così fosse, però, la restrizione dovrebbe valere sia nei confronti delle reti nazionali che nei confronti di quelle locali mentre invece il sistema italiano preclude la pubblicità dei trattamenti medico chirurgici sulle reti nazionali, permettendola su quelle locali.
La Corte ha quindi concluso dichiarando che data l’incoerenza del sistema italiano, la tutela della salute non appare un motivo idoneo a giustificare la restrizione posta dalla normativa italiana contenuta nella l. 175/92, la quale ostacola la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi. (Alessandra Delli Ponti per NL)