Tv. Mediaset al banchetto del digitale terrestre

Quando qualcuno ha iniziato a fare i conti, raggruppando i nuovi canali della tv digitale terrestre per network, è venuto fuori un numero inaspettato


Stefano Carli – Repubblica.it

Quando qualcuno ha iniziato a fare i conti, raggruppando i nuovi canali della tv digitale terrestre per network, è venuto fuori un numero inaspettato: ben 16 canali sui 38 complessivi (il calcolo è di fine novembre) fanno capo a Mediaset, una quota di mercato del 42%. Il numero viene fuori sommando Canale5, Italia1 Rete4, i tre nuovi canali Iris, Mediashopping e Boing e i canali a pagamento del bouquet Premium, ossia Steel, Joi, Mya e i due nuovi canali Disney: sono 5 ma valgono per 10 perché ogni canale si raddoppia, visto che ogni programmazione viene replicata su un secondo canale con un’ora di dilazione. Totale: 16. E questo senza contare i 9 canali della payperview, quelli delle partite che, funzionando solo alcune ore a settimana, non sono contati come canali, secondo quanto è stato stabilito da Autorità e governo quattro anni fa, al momento del lancio dei primi canali pay sulla nuova piattaforma.
Il calcolo, matematicamente esatto, è però sbagliato giuridicamente. Dei dieci canali pay, i due Disney e quello di Steel non sono di fatto canali Mediaset, perché la loro titolarità fa capo a due major, rispettivamente la Disney e la Universal. Anche così, però, Mediaset controlla 10 canali su 38, il che fa comunque una quota di mercato del 26%, superiore di sei punti al tetto del 20% stabilito dalla Gasparri. Un tetto che anche la Rai, in pieno rispetto della logica duopolistica, ha però a sua volta superato, anche se di molto meno: i suoi 8 canali valgono una quota di mercato del 21%. Attorno al digitale terrestre i prossimi mesi saranno cruciali e l’attenzione sta crescendo, anche perché i primi numeri sugli ascolti registrati in Sardegna dopo lo spegnimento delle vecchie trasmissioni analogiche hanno creato scompiglio. Vero che sono numeri parziali, da prendere con le pinze, ma dicono che la moltiplicazione dei canali fa male al gruppo del Biscione, che ha complessivamente perso quasi 7,8 punti di audience, a vantaggio di Rai (che perde nei canali tradizionali ma recupera nei nuovi ‘digital native’, specie con Rai4), di Sky, delle tv locali e dei nuovi canali digitali in genere.
Il digitale sta insomma aprendo spiragli di mercato. E questo potrebbe attrarre protagonisti che finora si sono tenuti distanti dal mondo della tv perché le maglie strette del duopolio hanno costituito una barriera insormontabile.
A riprova di questi movimenti ci sono le voci attorno alle prossime mosse di Telecom Italia, che potrebbe essere sul punto di cedere le sue frequenze.
Il gruppo di Bernabè ha deciso di puntare tutto sulla Iptv, per quanto riguarda la sua presenza nel mercato multimediale, e il piano industriale lo ha sottolineato esplicitamente. La strategia dovrebbe ora sostanziarsi con il progressivo disimpegno dalle piattaforme più tradizionali, ossia via etere, con l’obiettivo non secondario di fare cassa quanto più possibile. Finora ha venduto la payperview, i canali del calcio a pagamento di CartaPiù, agli svedesi di Air Plus.
Sta nel frattempo trattando per l’affidamento in outsourcing delle torri e degli impianti televisivi su cui oggi viaggia il segnale di La7, VideoMusic e dei due multiplex digitali. Viene data per favorita Elettronica Industriale, ossia Mediaset, ma anche la Dmt di Falciai è ancora della partita. Non è un affare di grandi dimensioni, non sono certo in ballo le torri per i cellulari di Tim: le torri tv di Telecom sono abbastanza poche e già oggi il gruppo va ‘in affitto’ in un gran numero di casi.
Ma il colpo grosso sarebbe quello di vendere le quattro frequenze nazionali e uscire completamente dal settore ‘trasmissione’: sono quattro canali da 8 megabit ognuno, ciascuno dei quali può portare fino a sei canali digitali. A Telecom sarebbero già arrivate almeno quattro proposte di offerta, sia da parte di soggetti italiani che stranieri. E’ un’occasione ghiotta e potrebbe spingere il gruppo a cogliere la palla al balzo e avviare la cessione già entro febbraio. Usciti dalle reti a Telecom resterebbe solo La7 e potrebbe concentrarsi sulla tv via Internet.
In questo scenario in movimento ci sono altri passaggi strategici a brevissimo termine. Entro la fine del 2009 saranno tutte digitali Val d’Aosta, Trentino Alto Adige, Belluno, Piemonte Occidentale e, soprattutto, Lazio e Campania. Sarà la vera prima prova, perché la Sardegna è sì andata molto bene, ma è anche stato un compito relativamente facile, per il ridotto numero di abitanti e per uno scenario tv semplificato. Arrivare nelle grandi aree urbane, e soprattutto nei territori di confine sarà tutt’altra cosa. Calabrò dovrà dunque darà il là a tutto questo processo indicando quale strategia seguire. La strada più ovvia sarebbe quella di replicare ovunque il modello sardo, ma ci sono alcune resistenze da superare.
La prima è nel fatto che in Sardegna si è riusciti ad accontentare tutti tranne l’Unione Europea. Lo switch off sardo ha infatti assegnato 21 frequenze a reti nazionali (ogni frequenza ospita un multiplex con i suoi 6 canali), 20 a emittenti locali; ha poi liberato del tutto tre frequenze, una delle quali è stata assegnata alla radio digitale e due per nuovi operatori tv.
Ha raggiunto inoltre questo risultato applicando, primi in Europa, il principio della monofrequenza: un operatore ha un’unica frequenza in tutta la regione e non pezzi e spezzoni qui e là. Questa scelta ha reso più difficile ricomporre il quadro complessivo, ma ha il vantaggio di eliminare le duplicazioni e le ridondanze (quelle zone in cui una tv si prende su canali differenti) e ha permesso di liberare più spazio.
Dov’è il problema? Che realizzare tutto questo nel resto d’Italia potrebbe rivelarsi meno facile. Specie quando, sulle frequenze di confine, non ci sarà da trattare con la sola Francia, ma con quella moltitudine di Stati che partono a nord con Austria e Slovenia e poi si addentrano nei Balcani fino all’Albania.
Il rischio è che potrebbe ulteriormente ridursi il dividendo digitale, ossia le frequenze da liberare per nuovi operatori e nuovi servizi. E’ una prospettiva che ha fatto suonare dei campanelli d’allarme a Bruxelles, dove già non avevano mandato giù la parte della Gasparri che limitava l’assegnazione delle licenze digitali ai soli operatori già in possesso di una licenza analogica, chiudendo la strada ai nuovi entranti. Quel passaggio della Gasparri è stato ora corretto, ma se il già piccolo dividendo digitale evidenziato in Sardegna dovesse ulteriormente assottigliarsi la cosa potrebbe suonare molto male.
E in questo quadro complessivo che va valutata la strategia di Mediaset sul digitale. Di fatto sta occupando spazio più velocemente dei suo concorrenti. E ancora vanno valutati appieno gli effetti di una mossa come quella del suo alleato Tarak Ben Ammar, che ha tolto i suoi due canali SportItalia dalla sua frequenza, portandoli su quella di Telecom Italia Media, e lasciando i suoi 6 canali tutti al bouquet Premium del Biscione.
Sembra che l’obiettivo di Mediaset sia di dimostrare che di frequenze libere non ne restano che pochissime. Il timore è per l’ingresso di nuovi concorrenti, specie se internazionali e di peso specifico elevato, e anche di dover cedere frequenze agli operatori telefonici.
Al Biscione sanno che almeno sul punto dell’ingresso di nuovi fornitori di contenuti, dovranno cedere. Ma puntano a mantenere il controllo delle frequenze, cosa che lascia loro indubbi vantaggi: in primo luogo il fatto che così chiunque voglia entrare dovrà farlo sulle frequenze di operatori tv, ossia pagando il pedaggio a loro e non allo Stato, che ne è il vero proprietario.
In un modo o nell’altro per Mediaset le cose non saranno però mai più come prima. La sensazione, dice un manager del settore, è che dei tre chiavistelli con cui il Biscione ha finora blindato il mercato italiano della tv, ossia contenuti, frequenze e pubblicità, quello delle frequenze sia ormai saltato. Per bloccare la restituzione delle frequenze liberabili Mediaset ha dovuto accelerare sui nuovi canali, senza la certezza che la pay tv sul digitale terrestre, così meno ricca rispetto al satellite, possa essere sufficiente a compensare la perdita di audience complessiva. Restano comunque altri due bastioni: il primo è quello dei contenuti; il secondo e più importante di tutti è quello della pubblicità.
La corazzata Publitalia per ora non corre rischi. Neanche il numero crescente di spot trasmessi dagli arcirivali di Sky la mettono per ora in dubbio. Anche perché la sonnolenta presenza della Rai nella raccolta pubblicitaria congela di fatto un terzo buono del mercato. Ma il vecchio duopolio scricchiola sempre più e non si sa ancora bene cosa succederà.

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