PAOLO MARTINI
ROMA – Si è riaperta ufficialmente la più grande fabbrica dell’ipocrisia nazionale: la televisione. Nel 2008 la ripresa di stagione è cascata l’8 settembre, una data che la dice lunga sullo stato comatoso della nostra tivù generalista. Ma la disfatta è già nelle intenzioni. Per esempio, della Rai. Dopo l’estate a tutto Veline della concorrenza, si viene a sapere che la prima rete abolirà perfino le riprese sul tanto discusso «lato B» delle miss. E questo nell’anno in cui Canale 5 proverà seriamente a contro-programmare Miss Italia con Il ballo delle debuttanti firmato da Maria De Filippi.
Per non parlare di Raidue, dov’è cominciata una «rivoluzione» nel day-time, un’innovazione da far tremare le vene ai polsi: c’è Milo Infante che fa il nuovo Funari per il 6.5% del pubblico. E la striscia musicale quotidiana Scalo 76, che al pomeriggio è partita con il 3.3%, chissà perché ha avuto un lancio alle 23.40 (non male per una quotidiana del pomeriggio!) con uno speciale di Morgan sul più celebre divo postumo-punk, Lucio Battisti (per il 6.1%)… Meno male che c’è Luxuria all’Isola dei famosi che promette: «Ci vado per combattere l’omofobia», e sicuramente farà meglio di quanto le sia riuscito a Montecitorio, fin dalla prima rissa con Elisabetta Gardini per le toilette.
Dunque, l’ipocrisia è il vero prodotto nazionale lordo della tivù. E non conosce crisi nemmeno fuori dalla Rai. Basta guardare la programmazione di Italia 1: ci sarà pure un telegiornale tutto sangue&sesso&susine come Studio aperto, in onda ogni giorno alle 18.30, ma se dagli Stati Uniti arriva un bel telefilm forte e chiaro, dove la crudezza del linguaggio e delle situazioni è autentica e non ipocriticamente grottesca, sparisce subito dopo la mezzanotte «per rispetto ai minori». È toccato a Californication, il telefilm per cui David Duchovny si è già meritato un Golden Globe, nei panni di un Bukowski di oggi: «Una serie del tutto originale, un comedy-drama diretta e pungente, senza censure, genuina», come dicono i fan. Ma i precedenti di serie americane innovative massacrate dalla programmazione italiana sono tanti, compresi grandi cult come i Sopranos.
E qui si tocca un nodo fondamentale che fa essere molto pessimisti sulla questione del rinnovamento della tivù generalista in Italia. Nessuno crede che si possa cambiare la fabbrica dell’ipocrisia e renderla un po’ meno conformista con le produzioni nazionali, show o fiction che siano, ma sempre raramente sopra la soglia minima della vergogna. Bisognerebbe far leva sui prodotti internazionali, particolarmente quelli americani, che conoscono da ormai più di un decennio una vitalità sorprendente. Peccato che non sia poi tanto facile: vista la velocità a cui viaggia il mercato televisivo, ci sono ormai solo prodotti «di nicchia», mirati a precisi pubblici, non più al pubblico televisivo generalista in quanto tale. Una televisione che si ridefinisce in questo modo ha persino nuovi criteri di valore: oggi negli Usa il successo generalista più importante sono i 28 milioni del concorso reality American Idol, che dai 40 milioni a puntata di un Cosby Show qualunque dell’epoca d’oro dei network a metà anni Ottanta è un bel salto all’indietro.
Se non è la fine della televisione, poco ci manca, come spiega molto bene il prestigioso editorialista di Enternainment Weekly, Mark Harris, in un saggio recente: «Ormai negli Stati Uniti si pensa a uno scenario imminente, dove la programmazione televisiva tradizionale non esiste più e sono invece disponibili diecimila opzioni diverse di programmi contemporaneamente, metà delle quali interattive (Non ti piace questo episodio di Law&Order? Nessun problema, cambia la trama!)». Ovviamente è l’offerta di programmi che promuove il cambiamento. Riassume Harris in uno slogan: «Benvenuti nella nuova era della cultura post-popolare, in cui c’è sempre qualcosa per ciascuno spettatore, ma non c’è più niente per tutti». Ecco, tradotto in italiano: il nazionalpopolare degli anni Ottanta è morto, s’avanza il Post-Pop. Già riuscire a dirsi questo, nella tivù generalista italiana, sarebbe un gran bel passo avanti. Ma la fabbrica dell’ipocrisia vive prima di tutto della distorsione della propria immagine, di un malinteso senso del servizio al pubblico.
Post scriptum: se volete leggere il saggio integrale lo trovate online a questo link