La regolamentazione del settore dei media nel nostro paese, per ragioni storico-politiche a tutti ben note, è sempre ruotata intorno al settore televisivo.
Fin dalla nascita delle prime emittenti commerciali (e stiamo parlando ormai di più di trent’anni or sono) è cominciato un lungo e farraginoso cammino normativo che è andato al traino dell’evoluzione del mercato, spesso certificandone le storture, mai cercando di indirizzarne lo sviluppo in una direzione precisa, magari funzionale all’interesse collettivo. E’ mancata, e continua a mancare, una politica di settore; e a poco sono valsi gli interventi dell’Unione Europea con le sue direttive, recepite tardivamente e controvoglia dal nostro legislatore (la recente riforma del Codice delle comunicazioni ne è solo l’ultimo esempio). Tutto ciò ha portato sicuramente l’Italia a diventare un paese dove la televisione tradizionale, quella del broadcasting via etere, ha trovato terreno fertile per uno sviluppo abnorme, che ha condannato all’irrilevanza tutte le altre forme e tecnologie di comunicazione. Così si spiegano anche le resistenze e i ritardi che hanno frenato e continuano ad ostacolare il dispiegamento della rivoluzione di internet nel nostro paese. Ora però si vedono i segni di un qualche cambiamento, soprattutto nella preoccupazione che i “signori dell’etere” mostrano nel vedere i propri ricavi scendere inesorabilmente, mentre crescono minacciose le ombre rappresentate dal nuovo che avanza: da una parte gli utenti sempre più ammaliati dalla rete, soprattutto nella sua incarnazione mobile; dall’altra i colossi multinazionali dell’over-the-top, che dopo aver quasi vinto la battaglia contro i broadcaster negli USA si apprestano a iniziare la campagna d’Europa. Recenti indagini sulle abitudini di consumo dicono che i fruitori di contenuti multimediali sono sempre meno disposti a farsi imprigionare da palinsesti, scalette e programmazioni imposte dall’alto. La disponibilità di servizi interattivi propri della rete e di dispositivi portatili sempre connessi convince fasce sempre più ampie di utenti della possibilità di costruirsi la propria dieta mediale con tempi e modi assolutamente personalizzati, in libertà e senza vincoli di sorta. Si impone quindi sul mercato una domanda crescente nei confronti di applicazioni di streaming, video on demand e PVR (Personal Video Recording), attualmente assai poco soddisfatta dagli operatori nostrani, alla quale ovviamente puntano i grandi fratelli globali della rete, che siano specializzati (Hulu, Netflix) o meno (Google-YouTube, Facebook, ecc.). Finora i problemi legati alla negoziazione dei diritti sui contenuti e l’estrema frammentazione del panorama degli operatori europei nel settore dei media ha impedito lo sbarco in forze dei player con base oltreoceano, e ha dato un po’ di respiro anche alle nostre ingessate imprese nazionali. Il tempo però stringe e, complice anche il mutato clima politico, pure gli alfieri dell’immarcescibile oligopolio televisivo nostrano stanno cominciando a muovere qualche passo, cercando di occupare i nuovi settori di mercato nella speranza di poter poi stringere accordi con i giganti della rete da una posizione di maggior vantaggio. Così si assiste a qualche dichiarazione inaspettata e anche un po’ tragicomica: Marco Paolini, direttore marketing strategico Mediaset, ha recentemente affermato: “non vorrei che il digitale terrestre fosse già preistoria e temo che il futuro sia la connettività alla rete”. Non senza aggiungere, tanto per chiarire il concetto, che “qualche anno fa la paura di Mediaset era l’arrivo di Murdoch. Oggi sono Google, Apple e Facebook”. Ovviamente rimane da capire come rispondere alle nuove esigenze degli utenti riuscendo a costruirci sopra un modello di business sostenibile, all’interno del quale magari rivedere il peso degli introiti pubblicitari a favore di forme di abbonamento o di pay per view flessibile. Una sorta di rivoluzione per chi ha sempre basato tutta la propria strategia sull’offerta nei confronti degli inserzionisti. SkyGo di Sky Italia e PremiumPlay di Mediaset, primi timidi tentativi di tv on demand, sono offerti come add-in agli abbonati alla pay-tv broadcast, e per ora non hanno certo i numeri per sostenersi da soli. I servizi gratuiti come Rai Replay escludono ovviamente i contenuti di qualità, e non si vede all’orizzonte un’applicazione di PVR online degna di questo nome. La vera svolta potrebbe avvenire con l’avvento di servizi strutturati solo per l’accesso via internet, con costi accessibili e una buona qualità di fruizione. Una possibilità che però si scontra con i noti e assolutamente non trascurabili problemi legati allo sviluppo della vera banda larga, sia fissa che mobile, nel nostro paese. Sullo sfondo infatti si agitano i malumori delle telco, che da noi come ovunque chiedono che le compagnie over-the-top sulla cresta dell’onda contribuiscano ad investire nello sviluppo delle infrastrutture fisiche che finora hanno sfruttato per supportare i propri business multimiliardari. Con conseguenze ancora da tutte verificare sulla neutralità della rete. Uno scenario complesso, in cerca di un difficile equilibrio tra soggetti portatori di interessi diversi e spesso contrapposti. Molto lavoro per le istituzioni di regolazione, che dovranno anche cercare di darsi un coordinamento sovranazionale in grado di rispondere alla dimensione globale di molti dei protagonisti in gioco. Certo il momento non è proprio favorevole, viste le difficoltà delle istituzioni europee in balia della crisi. Per quanto riguarda noi, essenziale sarà la capacità di scrollarsi di dosso le vecchie logiche “televisive” e di comprendere le dinamiche in atto nel mondo della rete, per aprire le porte a possibili prospettive di sviluppo che non riguardino sempre e comunque i soliti noti. Ogni perplessità, viste le nomine all’Agcom, è assolutamente lecita. (E.D. per NL)