Il video su internet è la nuova frontiera, la killer application per riuscire finalmente a concretizzare il miraggio (per alcuni) di far soldi con il web.
Di recente in Italia se ne sono accorti sia Mediaset (vedi le recenti dichiarazioni di Confalonieri) che l’Autorità per le comunicazioni (Agcom), che sta promuovendo un’apposita indagine in materia. Se tali soggetti, protagonisti dell’innovazione più a parole che nei fatti (difetto che accomuna pubblico e privato nel nostro paese), hanno deciso di occuparsene, il fenomeno deve effettivamente aver assunto una certa importanza. La raccolta pubblicitaria ne è uno dei segnali più forti: laddove tutti i mezzi di comunicazione continuano a far segnare cali a due cifre, il web continua ad essere in controtendenza, anche se in termini di volumi siamo ancora ben lontani dai numeri televisivi. Il cambiamento nelle abitudini dei consumatori è un altro fattore che comincia a far breccia nelle valutazioni di chi fa business nei media. Sempre più persone rifiutano la logica del palinsesto fisso e dell’apparecchio televisivo classico, ovvero le limitazioni spazio-temporali tipiche del modo tradizionale di fare televisione. L’avvento di internet e di dispositivi mobili sempre più potenti offre nuove vie alla fruizione dei contenuti video, e soprattutto una nuova libertà nel poter scegliere quando e come godersi lo spettacolo. In mezzo a mille difficoltà, dai limiti della banda larga alle remore dei broadcaster poco avvezzi a offrire servizi on-demand, gli utenti si stanno orientando verso questa nuova televisione, assai più personalizzata. La conseguente frammentazione delle modalità con cui si fruisce dei video, però, pone non pochi problemi a chi ha il compito di rilevare gli indici di ascolto, ovvero gli unici indicatori validi per chi deve orientare i propri investimenti pubblicitari. Le misure sul web si fanno da tempo, ma la vera sfida per gli istituti specializzati è quella di produrre un indice di audience multipiattaforma, comprensivo di tutti i mezzi attraverso i quali viene veicolato un contenuto video. E’ l’obiettivo che si pone Nielsen, che ha da poco lanciato negli USA un apposito progetto, il Digital program ratings, a cui tutti i maggiori broadcaster hanno già aderito. Le difficoltà sono di ordine sia teorico (ben diverse sono le tipologie di dati che le rilevazioni su tv e web attualmente producono) che tecnologico. Su quest’ultimo fronte è probabile che si riproporranno le discussioni tecniche già viste per la misura dell’audience radiofonica, sull’efficienza dei sistemi che prevedono una codifica preventiva delle trasmissioni rispetto a quelli basati sul confronto di tracce audio-video campione con vasti database di contenuti. I software finora prodotti sono in grado peraltro di rilevare la visione solo sui tradizionali PC: manca quindi ancora, anche se non tarderà ad arrivare, la misura del mondo in grande espansione dei dispositivi mobili (tablet e smartphone). In Italia la situazione è complicata dalla presenza di due organismi di rilevazione che si occupano separatamente di tv (Auditel) e internet (Audiweb), anche se la prima ha recentemente dichiarato di aver avviato contatti con Nielsen, che già conduce indagini per conto della seconda. Fondamentale è anche l’adesione dei soggetti trasmittenti, siano essi broadcaster o portali web, che finora (almeno per quanto riguarda Audiweb) è ancora piuttosto limitata. E che dire del re degli over-the-top video, ovvero YouTube, che si appresta a lanciare i propri canali premium a pagamento? Per ora la politica del colosso multinazionale di Google, anche in USA, sembra essere quella di rimanere fuori dai giochi delle misurazioni, in ossequio alle strategie autarchiche finora seguite da Mountain View. Del resto, dall’alto del miliardo di utenti unici al mese raggiunti a Marzo 2013, il portale del tubo si avvia comunque a diventare un punto di riferimento imprescindibile per qualunque produttore di contenuti che voglia sbarcare su internet con qualche probabilità di successo. (E.D. per NL)