TV e internet: la guerra prossima ventura per la conquista dell’UHF

Ancora la gestione delle frequenze a tenere banco in Italia in questa turbolenta estate del 2014. Si avvicina la scadenza entro la quale verrà sancita la possibilità di utilizzo co-primario della banda dei 700 MHz tra broadcaster e operatori di telecomunicazioni, ovvero tra la televisione digitale terrestre e la cosiddetta banda larga mobile.

A detta di molti sarebbe in corso una controffensiva dei grandi gruppi televisivi operanti sul DTT, che starebbero facendo pressioni per ottenere una sostanziosa proroga (addirittura al 2025) dei termini entro i quali si prevede che la televisione restringa i propri spazi a favore dell’internet in mobilità. Che il momento sia considerato propizio per l’operazione (probabilmente in considerazione del semestre italiano di presidenza dell’UE), lo dimostrano le dichiarazioni in questo senso da parte dei massimi responsabili sia di Rai che di Mediaset, che lamentano la compressione dei propri diritti e paventano la marginalizzazione del settore, agitando il consueto spauracchio delle ricadute in termini economici ed occupazionali. A questo proposito si cita anche uno studio dell’OFCOM, organismo di regolazione delle TLC nel Regno Unito, che definisce il digitale terrestre come piattaforma televisiva di riferimento “almeno fino al 2030”. Chi avesse la pazienza di leggersi il rapporto in questione – che in realtà è una proposta di pianificazione ora in consultazione pubblica – si renderebbe peraltro conto che l’agenzia britannica si guarda bene dal difendere il presunto diritto dei broadcaster a mantenere l’esclusiva sulla banda dei 700 MHz. Anzi, lo scenario preso in considerazione supera i prevedibili problemi di coabitazione, comportando la totale migrazione dei servizi attualmente presenti nella suddetta banda verso le frequenze sottostanti entro il 2020. L’analisi che sta alla base della pianificazione proposta individua specificamente i costi e i benefici, in termini economici e sociali, derivanti dalla transizione. In particolare, vengono prese in considerazione le problematiche relative alla conversione degli impianti DTT e della rete di distribuzione del segnale, nonché i possibili disagi per i cittadini derivanti da risintonizzazione dei decoder e modifica delle antenne riceventi. La conclusione, non proprio scontata, è che per ottenere il miglior rapporto costi/benefici è necessario accelerare, e non rallentare, i tempi del processo di transizione. Ovviamente lo studio si basa sullo scenario britannico, non esattamente coincidente con il nostro in termini di affollamento dello spettro e di problemi interferenziali interni ed esterni ai confini nazionali. Da notare anche che, per OFCOM, l’adozione del DVB-T2 non è da considerarsi una soluzione praticabile nel breve periodo, nonostante gli indubbi vantaggi in termini di occupazione di banda, a causa degli ovvi problemi di adattamento degli apparecchi di ricezione degli utenti. L’attenzione per i destinatari dei servizi televisivi sembra essere in effetti la principale preoccupazione del regolatore britannico, la cui relazione specifica in più occasioni che la riorganizzazione dello spettro dovrà avvenire nella maniera più trasparente e indolore possibile per i cittadini. Da noi, dopo aver farcito lo spettro di multiplex e di operatori di rete, le soluzioni diventano inevitabilmente più complesse e lo spazio per parlare di diritti dei teleconsumatori si riduce al lumicino. Tant’è vero che il legislatore ha già posto le basi di un nuovo mini-switch off con l’obbligo, a partire dal 2015, di commercializzare solo apparecchi compatibili DVB-T2. E così, in un panorama in cui i (veri) canali HD free sul digitale terrestre si contano sulle dita di una mano, già si parla delle improbabili meraviglie dell’ultra-HD e/o 4K, che l’emittenza sia pubblica che privata utilizza come specchietto delle allodole tecnologico per giustificare il mantenimento del patrimonio spettrale. E’ probabile che, come alcuni ipotizzano, tutta la battaglia venga condotta non tanto per scongiurare la perdita dei 700 MHz (ormai ineluttabile salvo clamorosi ripensamenti dell’ITU) quanto per porre un freno all’emorragia delle frequenze della banda UHF a favore dell’internet mobile. Purtroppo per i broadcaster, le favorevoli caratteristiche di propagazione e la capacità di penetrare anche nei luoghi meno accessibili (come all’interno degli edifici) rendono questa porzione di spettro sempre più appetibile alle telco anche in vista delle future evoluzioni della rete, che si chiamino wearable devices o internet of things. E le previsioni di aumento esponenziale del traffico video in rete nei prossimi anni non aiutano. Se a tutto ciò si aggiunge l’arretratezza delle infrastrutture digitali fisse a larga banda del nostro paese, il valore della posta in gioco appare evidente. Le condizioni infatti non sono ancora tali, almeno nel nostro paese, per favorire una transizione “morbida” del mercato televisivo verso nuovi paradigmi e soprattutto verso la neutralità rispetto alla tecnologia trasmissiva. Non è certo, tuttavia, che gli arroccamenti e le richieste di proroga siano la strategia giusta da adottare per affrontare le incombenti sfide future. (E.D. per NL)
 

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