I drammatici fatti di Genova hanno fatto emergere con forza il problema dell’informazione nelle situazioni di crisi dovute a eventi di portata catastrofica.
Un’emittente TV locale, che da tempo si è data obiettivi di servizio pubblico territoriale troppo spesso disattesi da chi dovrebbe essere istituzionalmente preposto a tale scopo, ha provveduto a fornire in diretta, durante tutta la durata dell’emergenza, informazioni e servizi sull’evoluzione del dramma vissuto dal capoluogo ligure. Su questo piano la rete, al di là dei video postati su YouTube e puntualmente riproposti da testate online e non, non è stata in grado di giocare un valido ruolo alternativo. Molti dei siti interessati alla crisi, a partire da quello dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (ARPAL) fino ad arrivare a quello della stessa emittente sopracitata, hanno palesato grossi limiti nella capacità di sopperire all’affluvio di richieste da parte di chi cercava affannosamente informazioni e direttive. Nel migliore dei casi l’aggiornamento subiva inaccettabili ritardi e lo streaming video si rifiutava di funzionare, nel peggiore i siti risultavano del tutto irraggiungibili. Il primo dei motivi del disservizio è certamente legato alla natura del disastro, in relazione a infrastrutture fisiche dalle caratteristiche assai diverse: pochi impianti di trasmissione in luoghi strategici per il broadcast, gli innumerevoli punti nodali della rete fissa e mobile dei gestori telefonici per il web. Così, mentre parti anche consistenti del network di telecomunicazioni hanno collassato nel momento più critico della crisi alluvionale, gli impianti di radiodiffusione, perlopiù situati in zone collinari e quindi non interessate dalle esondazioni, hanno continuato a funzionare, fornendo ai cittadini quell’informazione che in queste occasioni può essere essenziale anche per salvare delle vite. E’ vero che la struttura reticolare può permettere alle informazioni di giungere comunque al destinatario anche in assenza di uno o più nodi (motivo per cui l’idea di internet è nata, in ambito militare), mentre la messa fuori uso di un impianto di trasmissione TV può lasciare al buio un’intera popolazione. Ma in questo caso è stata la quantità degli accessi a fare la differenza: per raggiungere la grande massa di individui coinvolta nell’evento, le tecniche del broadcasting (TV, ma anche radio) si sono rivelate ancora essenziali. E questo perché, anche in condizioni di disponibilità di accesso fisico alla rete, ancora una volta si è reso evidente il sottodimensionamento delle infrastrutture: una banda larga che spesso esiste solo sulla carta e nella pubblicità, e server web strutturati per ricevere una quantità di richieste molto inferiore a quella che poi si verifica nella realtà, che si tratti di eventi eccezionali o meno. L’inadeguatezza spesso si evidenzia proprio nei siti della pubblica amministrazione che, al di là dei proclami, appare avere poca fiducia nei mezzi digitali e nella capacità dei cittadini di utilizzarli, come l’esperienza del censimento online ha ulteriormente confermato. Negli USA si sperimentano sistemi che in caso di eventi critici siano in grado di funzionare in rete collegandosi direttamente tramite i terminali mobili degli utenti, con meccanismi di peer-to-peer che permettono di dialogare anche in caso di infrastrutture fisiche gravemente compromesse. Da noi sarebbe già tanto cominciare a convincersi che internet, al di là di Facebook e YouTube, può essere utile anche per tirarsi fuori dai guai. (E.D. per NL)