dalla newsletter di Franco Abruzzo.it
Roma, 20 novembre 2007. Le critiche, anche forti, aspre, pungenti ed anche suggestive, all’operato della magistratura fanno bene alla democrazia. Che i cittadini abbiano il diritto di criticare le decisioni delle toghe la Cassazione già lo aveva detto, ma ora ha aggiunto qualcosa in più. La critica può diventare anche spietata davanti a decisioni che sono sentite come «ingiuste e non degne di un paese democratico». Il motivo? «La critica», scrive piazza Cavour, «è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in nome del popolo italiano». E se a volte la «critica giudiziaria» appare «contrassegnata da espressioni forti, aspre pungenti ed anche suggestive», essa va assolta perché «spesso sono necessarie per richiamare l’attenzione» della gente «distratta». In questo modo la Quinta sezione penale ha respinto il ricorso del Pg presso la Corte d’appello di Milano, Mario Blandini, che si era sentito danneggiato e offeso dai «toni assai aspri» utilizzati da “la Repubblica” (a firma Giuseppe D’Avanzo) per contestare la decisione della pubblica accusa di patteggiare in appello la pena sul caso di Ruggero Jucker, al quale, imputato per l’omicidio volontario della fidanzata, venivano inflitti 16 anni (contro i 30 del I grado). Pena ritenuta nell’articolo troppo mite in considerazione della gravità del fatto. In proposito, la Suprema Corte ha testualmente detto che non bisogna scandalizzarsi se si usano dei toni aspri per criticare le decisioni delle toghe in quanto vi sono fatti di cronaca che sono «particolarmente seguiti dalla pubblica opinione, che reclama processi non solo rapidi, ma anche rispettosi dei principi costituzionali, specialmente di quelli della presunzione di non colpevolezza e di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
Si legge nella sentenza: “Va altresì rilevato che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata – è bene ricordarlo – in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia ed indipendenza. E’ stata, pertanto, correttamente ritenuta, nel caso di specie, la sussistenza dell’interesse pubblico alla notizia ed alla critica”.
Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 05 giugno 2007
(dep. 12 settembre 2007), n. 34432.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NARDI Domenico – Presidente
Dott. FERRUA Giuliana – Consigliere
Dott. ROTELLA Mario – Consigliere
Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere
Dott. OLDI Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) Mario Blandini;
2) Giuseppe D’Avanzo;
3) Ezio Mauro;
avverso la sentenza del 08/06/2006 emessa dal GIP presso il Tribunale di Roma;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Gennario Marasca;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Izzo Gioacchino, che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al GIP presso il Tribunale di Roma;
Udito il difensore della parte civile avvocato J.P., che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
Udito il difensore degli imputati avvocato C.F.G., che ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte di Cassazione:
OSSERVA
Il 19 gennaio 2005 veniva pubblicato sul quotidiano La Repubblica un articolo dal titolo (OMISSIS) nel quale l’autore Giuseppe D’Avanzo criticava con toni assai aspri, ritenuti offensivi dal destinatario Mario Blandini, Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, che si querelava, la decisione della Pubblica Accusa di patteggiare in appello la pena sul cd. caso di Ruggero Jucker, al quale, imputato del delitto di omicidio volontario della fidanzata, previo giudizio di equivalenza tra le attenuanti e le aggravanti e con la riduzione del rito, veniva inflitta dalla Corte di Assise di Appello di Milano la pena di sedici anni di reclusione, ritenuta dal giornalista troppo mite e, quindi, ingiusta in considerazione della gravità del fatto commesso, rispetto alla pena di trenta anni di reclusione irrogata in primo grado.
Nell’articolo venivano criticate anche le considerazioni sul caso svolte dal Blandini nel corso di una intervista rilasciata il giorno precedente sempre al quotidiano (OMISSIS).
Nei confronti del D’Avanzo, imputato del reato di cui all’art. 595 c.p., e di Ezio Mauro, direttore del giornale imputato del reato di cui all’art. 57 c.p., il GIP presso il Tribunale di Roma, con sentenza ex art. 425 c.p.p., dichiarava non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato per esercizio del diritto di critica quanto al primo e perché il fatto non sussiste quanto al Mauro. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione Mario Blandini che deduceva la erronea applicazione della legge penale e precisamente degli artt. 595 e 51 c.p. ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata sul punto.
Il ricorrente, dopo avere ricordato che gli erano state attribuite espressioni mai pronunciate nel corso della intervista rilasciata il giorno precedente, rilevava che dalla critica alla scelta processuale, certamente legittima, il giornalista era passato ad un attacco personale del tutto gratuito ed inutile, come era lecito desumere da passaggi dell’articolo in discussione ove si parlava della cultura giuridica del ricorrente lunatica e fantasiosa, di subalternità psicologica dello stesso nei confronti di una famiglia importante ed influente e del processo che nelle mani del Blandini diveniva arte da basso intrigo.
Riteneva il ricorrente certamente violato nel caso di specie il canone della continenza.
Con memoria depositata il 14 febbraio 2007 il ricorrente, richiamando una recente sentenza della Suprema Corte in materia di diffamazione a mezzo stampa di un magistrato di procura (Cass., Sez. Feriale, 8-30 agosto 2006, Sgarbi), indicava nuovi argomenti a sostegno della sua tesi.
Occorre preliminarmente verificare l’ammissibilità del ricorso. Nel suo testo originario l’art. 428 c.p.p. non prevedeva impugnazioni della parte civile, ma ammetteva il ricorso della sola persona offesa contro la sentenza di non luogo a procedere esclusivamente per vizi del contraddittorio (Cass., Sez. 5^, 25 marzo 2003, Mennino, m. 225334).
L’esclusione della parte civile dall’ambito dei soggetti legittimati ad impugnare la sentenza conclusiva della udienza preliminare era del resto confermata dall’art. 576 c.p.p., comma 1 incluso nella disciplina generale delle impugnazioni che alla parte civile riconosceva il diritto di impugnare solo contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, oltre che ai soli effetti della responsabilita’ civile.
Siffatta disciplina, peraltro, era stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale con sentenza del 29 luglio 1992 n. 381.
La L. n. 46 del 2006 ha profondamente modificato il regime di impugnabilità della sentenza di non luogo a procedere, riconoscendo alla persona offesa la legittimazione a ricorrere per cassazione non solo per violazione del contraddittorio, ma, quando sia costituita parte civile, anche per gli altri motivi di cui all’art. 606 c.p.p.. Il ricorso della persona offesa costituita parte civile previsto dall’art. 428 c.p.p., comma 2, ultima parte, come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 4, non e’ limitato ai soli effetti civili, ma e’ validamente proposto agli effetti penali.
A tale conclusione si perviene in primo luogo per effetto di una interpretazione letterale delle norme in materia di impugnazione perché una limitazione della impugnazione ai soli effetti civili, imposta esplicitamente dall’art. 576 c.p.p., comma 1 per le impugnazioni della parte civile contro le sentenze pronunciate in giudizio, non e’ prevista dall’art. 428 c.p.p. per le sentenze di non luogo a procedere pronunciate dal GIP.
Inoltre una impugnazione ai soli effetti civili sarebbe incompatibile con la natura della decisione conclusiva della udienza preliminare che, come è noto, è priva di effetti irrevocabili sul merito della controversia (Cass., Sez. 5^ sent. n. 5698 del 15 gennaio – 9 febbraio 2007, Reggiani e Cass., Sez. 5^, 3 maggio – 6 giugno 2007, parte civile contro Pappaianni ed altri, rv. 236250). Del resto non deve sorprendere che la persona offesa possa mettere in discussione gli effetti penali di una decisione, dal momento che anche in materia di archiviazione e’ prevista la opposizione della parte offesa alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero ed il ricorso per cassazione avverso il decreto di archiviazione, sia pure con le limitazioni previste dall’art. 409 c.p.p., comma 6.
E’ poi appena il caso di rilevare che correttamente è stato proposto nel caso di specie il ricorso per cassazione dal momento che la L. n. 46 del 2006 citata ha escluso la possibilità dell’appello avverso le sentenze di non luogo a procedere.
D’altra parte la sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che ha ripristinato l’appello del Pubblico Ministero avverso le sentenze di proscioglimento, non riguarda la L. n. 46 del 2007, art. 4 che disciplina le impugnazione avverso le sentenze di non luogo a procedere, tipologia di sentenze che non rientra nella piu’ ampia categoria delle sentenze di proscioglimento di cui alla citata L. n. 46 del 2007, artt. 1 e 10 (cosi’ Cass. Sez. 5^, 13 marzo 2007, n. 17417, Parolai ed altri e da ultimo Cass. 15 giugno 2007, Sez. 1^, Fonte + 6).
Nel merito il ricorso proposto dal Blandini, che ha dedotto, come già rilevato, la erronea applicazione della legge penale e la illogicita’ e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, che aveva ritenuto sussistente la esimente dell’esercizio del diritto di critica, non e’ fondato ed anzi in numerosi passaggi e’ ai limiti della ammissibilità perché, come è noto, la valutazione del contenuto diffamatorio di un articolo e quella relativa alla sussistenza dei presupposti per ritenere l’esercizio del diritto di critica sono di competenza dei giudici dei primi due gradi di giurisdizione trattandosi di valutazioni di merito, che, se sorrette da una motivazione immune da manifeste illogicità, non sono censurabili in sede di legittimita’ (Cass., Sez. 5^, 21 dicembre 2000 – 20 febbraio 2001 n. 6924, in CED 218280).
In effetti la sentenza impugnata appare non censurabile perché fondata su una corretta interpretazione dell’art. 51 c.p. alla luce della elaborazione giurisprudenziale in materia di esercizio del diritto di critica.
E’ noto, invero, che l’esercizio del diritto di critica si differenzia nettamente dall’esercizio del diritto di cronaca perché non si concretizza nella narrazione di fatti, ma nella espressione di una opinione, che, come tale, non puo’ pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non puo’ che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti (così Cass., Sez. 5^, 14 aprile 2000 – 27 giugno 2000, n. 7499, CED 216534).
Ciò comporta che non si pone in materia di diritto di critica un problema di veridicita’ delle proposizioni assertive dell’articolista (Cass., Sez. 5^, 8 febbraio 2000 – 17 marzo 2000 n. 3477, CED 215577), essendo il requisito delle verita’ limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse (Cass., Sez. 5^, 14 febbraio 2002 – 24 maggio 2002, n. 20474, in CP 03, 3019).
Nel caso di specie il D’Avanzo ha fondato le opinioni espresse su fatti certi e non contestabili quali l’accordo sulla pena in sede di appello in relazione al c.d. caso Jucker, che tante critiche aveva suscitato nella opinione pubblica milanese per il dimezzamento della pena inflitta in primo grado ritenuto ingiustificato per la efferatezza del delitto commesso, e la intervista concessa dal Blandini sul caso Jucker al quotidiano “La Repubblica”.
Correttamente è stato, pertanto, ritenuto sussistente dal GIP il requisito della verità dei fatti sottoposti a critica dal D’Avanzo.
Nessun dubbio è poi possibile in ordine alla sussistenza del requisito dell’interesse sociale per la questione discussa nell’articolo incriminato.
Forte e’, infatti, la attenzione della pubblica opinione su gravi fatti di cronaca e sugli esiti giudiziari degli stessi.
Ed è giusto che sia così perché la discussione su episodi che hanno fortemente colpito la sensibilità dei cittadini contribuisce alla formazione di un profondo e condiviso senso di giustizia.
Particolare attenzione per i cittadini hanno da sempre prestato alla adozione di rilevanti provvedimenti giudiziari ed all’esito dei processi penali piu’ importanti non solo perché attraverso di essi si attua la giustizia, ma anche perche’ molti provvedimenti giudiziari incidono pesantemente sulla vita singoli cittadini e delle comunita’, che, quindi, non possono restare indifferenti.
Proprio per tale ragione le riflessioni sulla tempestività dei procedimenti giudiziari e sulla correttezza delle decisioni assunte vengono particolarmente seguite dalla pubblica opinione, che reclama processi non solo rapidi, ma anche rispettosi dei principi costituzionali, specialmente di quelli della presunzione di non colpevolezza e di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Molto ampio è, pertanto, lo spazio dedicato dai quotidiani, evidentemente sensibili alle aspettative dei cittadini – lettori, alla cronaca ed alla critica giudiziaria.
Va altresì rilevato che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata – è bene ricordarlo – in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia ed indipendenza. E’ stata, pertanto, correttamente ritenuta, nel caso di specie, la sussistenza dell’interesse pubblico alla notizia ed alla critica.
Resta da esaminare soltanto il profilo della cd. continenza espressiva, che anche il ricorrente ha considerato l’aspetto piu’ rilevante nel presente processo. E’ fuori contestazione che la critica giudiziaria possa essere contrassegnata da espressioni forti, aspre pungenti ed anche suggestive, spesso necessarie proprio per richiamare la necessaria attenzione dei lettori, che, bombardati da numerose notizie, debbono poter individuare prontamente quelle piu’ significative. D’altra parte e’ nota l’influenza del mezzo televisivo sul mutamento del linguaggio; proprio la grande efficacia dei messaggi televisivi, che accompagnano alle parole immagini che captano immediatamente l’attenzione dello spettatore, ha imposto un mutamento anche dei messaggi inviati con la carta stampata che, per catturare l’attenzione dei lettori, debbono non solo essere manifestati con linguaggio semplice ed immediato, ma anche resi con frasi, talvolta eccessive e/o suggestive, che siano tali da richiamare nel distratto lettore immagini e concetti significativi.
Del resto, per la ragione esposta e per altri complessi motivi che appare superfluo esaminare in questa sede, il linguaggio usato dai cittadini, dagli uomini politici, dai sindacalisti e dai cd. opinion leaders è molto mutato nell’ultima parte del secolo scorso.
Ormai siamo abituati, come telespettatori, ad assistere a vere e proprie aggressioni verbali televisive e, talvolta, a vere e proprie contumelie che affermati uomini politici non esitano a scambiarsi. Non potevano in giornali restare esenti da tali fenomeni.
Siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro è certamente poco opportuno ed è sicuramente censurabile sul piano del costume, come non ha mancato di rilevare anche il giudice di primo grado, ma bisogna prendere atto che esso è ormai accettato, o forse è meglio dire sopportato, dalla maggioranza dei cittadini, che, pur contestando non di rado l’uso di un linguaggio troppo aggressivo, stentano a credere che si debba fare ricorso in tali casi a sanzioni penali.
E’ il sintomo questo che la sensibilità e la coscienza sociale sul punto sono molto cambiate.
Le pronunce della Suprema Corte che legittimano, ovviamente sul solo piano penale, un linguaggio più disinvolto, più aggressivo, meno corretto di quello in uso fino a pochi decenni fa sono oramai molte e riguardano sia il settore dei rapporti tra i cittadini, sia quelli dei rapporti politici e della critica politica, sindacale e giudiziaria.
Naturalmente se è vero che deve essere tutelata nel modo più ampio possibile in un paese democratico la libertà di espressione – ed a tale canone sono ispirate le decisioni di cui si è detto – è pure vero che tale insopprimibile libertà costituzionalmente garantita incontra dei limiti perché non può essere negato il diritto alla tutela della reputazione e della onorabilità dell’individuo.
Ebbene la giurisprudenza della Suprema Corte, che ha cercato di garantire nel modo più ampio l’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che rientrano tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa, ha trovato un limite a tali libertà quando l’agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato.
Insomma quando si utilizzano i cd. argumenta ad hominem e la critica sfocia nella inutile aggressione alla sfera morale altrui, la esimente dell’esercizio del diritto di critica non può essere riconosciuta. Il problema nel presente caso consisteva, quindi, nel verificare se il D’Avanzo aveva senza ragione aggredito la sfera morale della persona offesa.
Il giudice di merito, che ha certamente tenuto conto dei canoni interpretativi sommariamente indicati, ha spiegato che la critica del giornalista era certamente aspra e pungente ed in alcuni casi inopportuna e forse motivata anche da una non completa conoscenza di istituti e prassi giudiziarie, ma che mai l’imputato aveva inutilmente e gratuitamente aggredito la sfera morale del Blandini.
Anche in questo caso si tratta di un giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità dal momento che la motivazione che lo sorregge non è affatto manifestamente illogica come sostenuto dal ricorrente. Come emerge dalla motivazione impugnata, oltre che dall’articolo incriminato, del quale questa Corte può prendere cognizione perché riportato nel capo di imputazione, infatti, il D’Avanzo, facendosi interprete della disapprovazione della opinione pubblica per un comportamento processuale della Pubblica Accusa e per una conseguente decisione della Corte di Appello ritenuti ingiusti nonché lesivi del principio della uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ha criticato non solo il provvedimento giudiziario, ma anche l’intervista rilasciata dal Blandini a difesa del suo operato in modo certamente pungente ma non inutilmente aggressivo. Ed infatti la spietata critica per la espressione usata nella intervista pochi, maledetti e subito, espressione che dalla vulgata popolare viene riferita ai soldi, e che, invece, il Blandini ha, assai inopportunamente, riferito agli anni di reclusione da infliggere allo Jucker, è pienamente giustificata perché essa esprime una concezione del diritto e della giustizia quantomeno singolari.
Come pure l’ironico riferimento al Blandini-Robespierre., che però nel caso di specie non era stato particolarmente rigoroso, non costituisce un inutile attacco alla persona, ma semplicemente l’espediente retorico per censurare una incauta affermazione del Blandini, che nel corso dell’intervista aveva detto di essere stato negli anni passati denominato Robespierre. a causa del suo rigore, perché di sicuro è del tutto improprio avvicinare la figura istituzionale del Procuratore Generale della Repubblica quale disegnata dal nostro legislatore a quella del noto rivoluzionario, che in modo spietato consentì l’uso della ghigliottina.
Si è trattato, quindi, dell’utilizzo di argomenti, peraltro introdotti nel dibattito pubblico dallo stesso Blandini per mezzo dell’intervista, necessario per censurare una concezione del diritto ritenuta dal giornalista, interprete in quel momento della opinione pubblica maggioritaria, inaccettabile e foriera di decisioni ingiuste non degne di un paese democratico.
Anche il tanto criticato dal ricorrente riferimento alla supposta cd. subalternità psicologica del Blandini nei confronti di una famiglia nota e potente non costituisce un argomento utilizzato dal D’Avanzo allo scopo di denigrare la persona del Blandini, ma per tentare di trovare una plausibile spiegazione a quella che era ritenuta una grave ingiustizia.
Del resto non è usuale nelle aule di giustizia che con il patteggiamento della pena in appello ex art. 599 c.p.p. l’imputato riesca a dimezzare la pena che gli era stata inflitta in primo grado per un delitto di tale indubbia gravita’.
Tale obbiettiva e non contestabile situazione unita alla inopportuna difesa, che peraltro non può definirsi nemmeno efficace, del proprio operato per via giornalistica, ha fornito lo spunto al giornalista per considerazioni che, correttamente, sono state dal giudice di merito definite esagerate ed inopportune, ma che non possono di sicuro essere lette come un gratuito attacco alla sfera morale del Blandini rappresentando, invece, il tentativo di una spiegazione sociologica, di certo un po’ approssimativa, di quanto accaduto. Anche il cd. requisito della continenza espressiva ricorre, pertanto, nel caso di specie e le censure del ricorrente sul punto debbono essere disattese.
Per tutte le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.
Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2007
(sentenza ripresa da: www.penale.it/page.asp?mode=1&IDPag=478)