Il successo delle radio politiche stava cominciando a manifestarsi in tutta la penisola, quando, nel 1976, dal centro storico di Bologna, cominciò a trasmettere Radio Alice, la stazione che sarebbe passata alla storia come la radio “di movimento” per eccellenza.
Per comprendere l’importanza dell’esperienza di Radio Alice, occorre effettuare una panoramica circa il clima nel quale nacque il fenomeno giovanile denominato “Movimento”, di cui l’emittente bolognese fu parte integrante.
Nel 1976, a Bologna come a Roma e Milano, si cominciavano a delineare due tendenze distinte della protesta giovanile. Da una parte un gruppo spontaneo, ironico ed irriverente, incline a creare strutture alternative piuttosto che a sfidare il potere, di cui i rappresentanti più vivaci furono gli “indiani metropolitani”, caratterizzati da un abbigliamento vistoso e dalla faccia dipinta, simboli del rifiuto della società industriale. Dall’altra parte una tendenza autonoma e militarista, intenta a valorizzare la cultura della violenza degli anni precedenti ed organizzare i nuovi soggetti sociali per una battaglia contro lo Stato. Nel febbraio 1977, gli studenti occuparono l’Università di Roma per protestare contro i propositi di riforma del ministro della Pubblica Istruzione. Il controllo di questa lotta, che diventò presto un punto di raccolta per tutti i malcontenti della capitale, cadde poi nelle mani di Autonomia Operaia. Il 19 febbraio dello stesso anno, sia l’ala “creativa” (il gruppo al quale facevano capo i citati indiani metropolitani) che quella “militarista” si mobilitarono contro il segretario della CGIL, Luciano Zama, zittendolo durante il comizio interno dell’Università. Scoppiarono violenti scontri tra gli autonomi ed i militanti del Pci. Quindici giorni più tardi, a Roma, una manifestazione di circa 60.000 giovani degenerò in una battaglia urbana di quattro ore con la polizia. Da Roma il movimento di protesta si spostò a Bologna ed in breve si diffuse in tutta Italia. Come si sarebbe detto qualche anno più tardi, non fu “un” movimento ma “il Movimento”: una unica grande massa fluida, inafferrabile, impossibile da definire in maniera univoca; una massa giovanile che cercava ancora una volta (dopo il 1968) di conquistare, con i propri desideri, le proprie ansie, la propria gioia e le proprie paure, il centro della scena sociale e politica. Per la verità i ragazzi del Movimento del 1977 erano giovani molto diversi da quelli che avevano fatto il Sessantotto.
E lo erano per molti motivi: innanzitutto perché l’Italia politica, tra il 1968 ed il 1976, era profondamente cambiata, segnando un progressivo e costante spostamento del ceto medio verso la sinistra, premiata nelle elezioni (del 20 giugno 1976) da un aumento evidente dei consensi pur avendo fatto registrare una decisa sconfitta della Nuova Sinistra, presentatasi unita sotto la sigla di Democrazia Proletaria, in favore di una crescita ulteriore del Pci. Un Partito Comunista che, tuttavia, veniva sempre più criticato, da sinistra, perché non sembrava in grado di interpretare, secondo il Movimento, sogni e bisogni del “proletariato giovanile”, perché pronto a svendere le conquiste del mondo operaio e cogestire il potere con la Democrazia Cristiana. C’era, oltretutto, nell’aria, una forte sensazione di catastrofismo, provocata dalla crisi petrolifera, che aveva improvvisamente svelato la fragilità del decantato benessere del sistema occidentale. Più in generale, si avvertiva l’improvvisa e totale caduta di quell’ottimismo del cambiamento, che, in qualche modo, aveva sorretto i movimenti giovanili, anche nelle forme più estreme. In questo clima, circa un anno prima dell’ufficiale nascita del “Movimento”, il 9 febbraio 1976, iniziò a trasmettere a Bologna, sulla frequenza FM 100.6 MHz, Radio Alice, la stazione che (per prima) diffuse il “linguaggio sporco”. Era una piccola emittente dell’ala creativa del Movimento, con punti di riferimento nella letteratura e nei nouveaux philosophes, piuttosto che nel marxismo (grazie anche alla sua decisa appartenenza allo schieramento ideologico dell’ultrasinistra). Diventò la protagonista della “comunicazione liberata”, cioè: microfono aperto a chiunque volesse parlare, utilizzo selvaggio della diretta ed una produzione culturale senza precedenti.Il perno sul quale ruotava il forte richiamo sui giovani, “politicamente impegnati”, dello stile anomico di Radio Alice, derivava dalla concettualizzazione del fatto che si ha maggiore reattività quando la libertà minacciata è qualcosa di importante e quando è convinzione dell’individuo di avere diritto alla libertà stessa. Del resto, l’emittente bolognese, era conscia che anche la censura può accrescere la reattività: per questo gli slogan da essa lanciati inneggiavano ad una comunicazione totalmente priva di costrizioni, cioè, per l’appunto “liberata”.
Fortemente legata ai principi della filosofia di Marcuse – si pensi al nome stesso, sintomatico dell’intento di negare la realtà (col rifiuto della stessa), per inoltrarsi in un indefinito “paese delle meraviglie” -, dotata di un palinsesto molto aperto e destrutturato e, anzi, per lunghi periodi, addirittura inesistente (improvvisando del tutto la programmazione ed i turni di presenza), Radio Alice, per contro, aveva in comune con le radio private commerciali, un forte legame con la comunità geografica: la sua filosofia movimentista non le impedì, cioè, di comprendere che il rapporto col territorio poteva essere, a volte, più forte di quello ideologico (con i settori della popolazione, importanti ma pur sempre parziali, che ricevevano ed ascoltavano l’emissione). La contestazione di Radio Alice era totale e non risparmiava nessun settore del sistema sociale italiano.Il suo atteggiamento ricalcava alla lettera quanto scritto dal sociologo Neil J. Smelser in merito ai comportamenti collettivi: “l’attacco più drastico al sistema che provoca crisi economiche e depressioni negli affari consisterebbe nell’eliminare il sistema stesso e introdurre alcuni valori socialistici. Tale soluzione è di portata più ampia che non quella che prevede semplicemente la promulgazione di leggi e regolamenti, in quanto essa implica una riorganizzazione dei valori da cui leggi e regolamenti sono legittimati”. A metà strada tra la consapevolezza dell’utopia di un simile programma e la convinzione di aver la possibilità di contribuire a rovesciare il sistema, l’emittente movimentista fu in grado di sviluppare un marchio che produsse musica, filosofia, informazione, teorizzando spontaneismo, rifiuto del lavoro, illegalità. Seguendo la concettualizzazione di Horkheimer e Adorno, per i quali il potere economico e politico non si limita più principalmente allo sfruttamento della forza lavoro, ma permea qualsiasi momento della vita dell’individuo nell’occupazione professionale così come nel tempo libero, Radio Alice, allertava il pubblico, circa la totale riduzione dell’individuo entro uno schema sociale prestabilito: gli individui sarebbero stati, in questa visione, annullati dal sistema economico e politico in quanto manipolati e ridotti a cose.Adorno e Horkheimer, già nel 1966, avevano, infatti, avvertito: “…l’unità del collettivo manipolato consiste nella negazione di ogni singolo; è una beffa a quella società che potrebbe fare dell’individuo un individuo“. L’attività di Radio Alice non si limitò, comunque, alla semplice enunciazione via etere di questi concetti o all’esortazione alla lotta e alla protesta: sotto la sigla di Humpty Dumpty, l’uovo-blob del romanzo di Lewis Carroll, essa distribuì nel circuito delle radio libere un catalogo di concerti, contributi sonori, opere radiofoniche, interviste, che ben rappresentavano la creatività poliforme del ’77. Uno sforzo possibile grazie alla creatività dei militanti, ma soprattutto ad un movimento che seppe mettere la comunicazione prima dell’ideologia, forte della consapevolezza che il medium radiofonico, col suo elevato tasso di sensazione, obbliga il recettore (l’ascoltatore), attraverso lo stimolo della fantasia, a crearsi una realtà dell’informazione ricevuta. L’11 marzo 1977, dopo un’assemblea di Comunione e Liberazione, interrotta da studenti di sinistra, scoppiarono incidenti nella zona universitaria della città felsinea. Il rettore chiamò i carabinieri che aprirono il fuoco senza necessità, colpendo a morte un simpatizzante di Lotta Continua. Seguirono scontri tra giovani e polizia durante i quali fecero scalpore i reiterati incitamenti di Radio Alice alla rivolta ed alla distruzione di proprietà pubbliche e private. La segnalazione via radio, ai dimostranti, della posizione delle forze dell’ordine – che ebbe la conseguenza di favorire direttamente la guerriglia urbana – fu il motivo principale della chiusura della stazione, avvenuto il 12 marzo 1976, a seguito di un provvedimento del sostituto procuratore della Repubblica Riccioni.
Chiusa Radio Alice, il Movimento, cavalcando l’interesse prestato dalla stampa all’avvenimento, prese ad utilizzare (a partire dallo stesso giorno) per i medesimi scopi di lotta, Radio Lara, che, di fatto, prese il posto dell’emittente disattivata. Due giorni dopo anche Radio Lara fu sequestrata, per ordine della magistratura.
I casi delle due emittenti aprirono aspre polemiche circa l’incostituzionalità dei provvedimenti di chiusura. L’eco degli avvenimenti fu così grande che il 22 marzo seguente, il prefetto di Roma dispose la chiusura – annullata poco dopo – per 24 ore, di tutte le 87 stazioni locali della capitale, in quanto il giorno dopo avrebbero avuto luogo comizi indetti da organizzazioni sindacali, per i quali erano prevedibili azioni di disturbo da parte delle radio. Da questi avvenimenti, e da quelli analoghi sviluppatisi in alcune città americane verso la fine degli anni Sessanta, è possibile concludere che – come ci avverte McQuail – in vari modi, diretti ed indiretti, i media possono provocare disordini, creando una cultura degli stessi, fornendo lezioni su come metterli in atto e diffonderli. Il caso di Radio Alice assume, evidentemente, i connotati di un modo diretto di incentivazione ai disordini. Un esempio di azione indiretta, che può contribuire a favorire l’azione violenta, è la semplice segnalazione del verificarsi dei disordini o l’informazione circa la localizzazione degli stessi. Si valuti, a tal proposito, che i media sono inevitabilmente coinvolti in episodi di cronaca e violenza, a causa dell’importanza (per fini informativi) che attribuiscono ad essi, e, di conseguenza – come hanno precisato Schmid e De Graaf – la violenza può essere un mezzo di accesso alla comunicazione di massa ed anche un messaggio in se stessa. In ogni caso, i fatti riportati furono la massima espressione della protesta del Movimento. Da allora iniziò il lento spegnimento del fenomeno: l’ala militarista, non riuscì ad ottenere ciò che voleva e la maggior parte del Movimento, per quanto disgustata dai governi di solidarietà nazionale, non si dimostrò pronta a prendere le armi. I centri giovanili scomparirono un po’ alla volta e la maggioranza dei giovani militanti ingrossò le fila del “riflusso”, ritirandosi nella vita privata, abbandonando l’azione collettiva.L’esperienza di Radio Alice e delle altre stazioni di movimento, estreme conseguenze del decennio di creatività diffusa, inaugurato dal ’68, dimostrarono che la radio libera poteva essere lo sbocco naturale del pensiero culturale, politico e sociale, ma soprattutto che era nelle condizioni di incrementare la funzione del medium verso la massa, cioè, in accordo con il sociologo Mascilli Migliorini “accentuando l’effetto persuasivo nei confronti del pubblico, ma, allo stesso tempo, essendo essa stessa un sottosistema di un complesso sociale e politico, subendone il condizionamento specifico (ideologico, politico ed economico)”. Per contro la rapida scomparsa dalla scena delle emittenti militanti, può essere ricondotta ad un particolare presupposto limitativo della loro filosofia radiofonica, ed all’atteggiamento utopico da esse avuto nei confronti della realtà. Il presupposto limitativo può essere riferito all’informazione implicante di queste emittenti.Contrariamente, infatti, alla stazione generalista – che prendendo atto delle esigenze del pubblico, si conforma ad esse e struttura il proprio palinsesto in vista del soddisfacimento delle necessità dell’utenza – la radio militante presuppone un’audience partecipe e normalmente affine per ideologia politica. Questa posizione comporta una visione del rapporto medium-ascoltatore opposta a quella tradizionale in un regime altamente concorrenziale. Spiegando meglio questa riflessione, possiamo pensare al rapporto mezzo-utente in un regime monopolistico: l’ascoltatore è costretto ad accettare ciò che il medium propone; la sua unica alternativa è, in una fredda logica assolutistica, il “sì” o il “no”, ovvero “l’ascoltare” o il “non ascoltare” (essendo impossibile “ascoltare qualcos’altro”).Al contrario, in un clima di pluralità informativa, avendo il fruitore del servizio la possibilità di scegliere il canale, saranno i media a strutturarsi in modo tale da rendere i propri programmi il più appetibile possibile all’utenza che cercheranno di calamitare. Per quanto si ipotizzasse un servizio specialistico, esso non potrà, in ogni caso, porre troppi vincoli di accesso, poiché, anche in questa condizione, l’obiettivo primario sarà il soddisfare le esigenze di un pubblico il più esteso possibile (in quel segmento di audience). La stazione qui esaminata, agisce in termini contrari: non decide di conformare il proprio ruolo a servizio informativo di un pubblico (per quanto limitato) definito come obiettivo d’ascolto, ma si offre ad un’utenza indefinita che deciderà se allinearsi o meno all’ideologia della trasmittente. Questo atteggiamento comporta una perdita di contatto della radio con le esigenze del pubblico, trasformando il medium in portavoce della sua stessa ideologia, più che di quella del pubblico che vuole raggiungere.In merito all’atteggiamento assunto nei confronti della realtà dall’emittenza militante, come ben evidenziato dal sociologo Alwin W. Gouldner nella sua opera “La crisi della sociologia”, il tentativo di guardare ad essa (la realtà) così come è, porta inevitabilmente (poiché, di fatto, ciò è impossibile), a cadere in errore, scambiando la realtà oggettiva con quella che, invece, è l’interpretazione soggettiva di essa da parte del mondo culturale cui si appartiene. Ciò è, fondamentalmente, quello che accadde alle emittenti politicamente impegnate: nel tentativo di dimostrare che il mondo reale era diverso da quello dipinto da media “asserviti al potere”, caddero esse stesse vittime dello stesso gioco, finendo per difendere una logica di parte (anche se, ovviamente, opposta), con conseguente perdita di contatto con l’oggettività di cui volevano farsi portabandiera. (M.L. per NL)
Nel 1976, a Bologna come a Roma e Milano, si cominciavano a delineare due tendenze distinte della protesta giovanile. Da una parte un gruppo spontaneo, ironico ed irriverente, incline a creare strutture alternative piuttosto che a sfidare il potere, di cui i rappresentanti più vivaci furono gli “indiani metropolitani”, caratterizzati da un abbigliamento vistoso e dalla faccia dipinta, simboli del rifiuto della società industriale. Dall’altra parte una tendenza autonoma e militarista, intenta a valorizzare la cultura della violenza degli anni precedenti ed organizzare i nuovi soggetti sociali per una battaglia contro lo Stato. Nel febbraio 1977, gli studenti occuparono l’Università di Roma per protestare contro i propositi di riforma del ministro della Pubblica Istruzione. Il controllo di questa lotta, che diventò presto un punto di raccolta per tutti i malcontenti della capitale, cadde poi nelle mani di Autonomia Operaia. Il 19 febbraio dello stesso anno, sia l’ala “creativa” (il gruppo al quale facevano capo i citati indiani metropolitani) che quella “militarista” si mobilitarono contro il segretario della CGIL, Luciano Zama, zittendolo durante il comizio interno dell’Università. Scoppiarono violenti scontri tra gli autonomi ed i militanti del Pci. Quindici giorni più tardi, a Roma, una manifestazione di circa 60.000 giovani degenerò in una battaglia urbana di quattro ore con la polizia. Da Roma il movimento di protesta si spostò a Bologna ed in breve si diffuse in tutta Italia. Come si sarebbe detto qualche anno più tardi, non fu “un” movimento ma “il Movimento”: una unica grande massa fluida, inafferrabile, impossibile da definire in maniera univoca; una massa giovanile che cercava ancora una volta (dopo il 1968) di conquistare, con i propri desideri, le proprie ansie, la propria gioia e le proprie paure, il centro della scena sociale e politica. Per la verità i ragazzi del Movimento del 1977 erano giovani molto diversi da quelli che avevano fatto il Sessantotto.
E lo erano per molti motivi: innanzitutto perché l’Italia politica, tra il 1968 ed il 1976, era profondamente cambiata, segnando un progressivo e costante spostamento del ceto medio verso la sinistra, premiata nelle elezioni (del 20 giugno 1976) da un aumento evidente dei consensi pur avendo fatto registrare una decisa sconfitta della Nuova Sinistra, presentatasi unita sotto la sigla di Democrazia Proletaria, in favore di una crescita ulteriore del Pci. Un Partito Comunista che, tuttavia, veniva sempre più criticato, da sinistra, perché non sembrava in grado di interpretare, secondo il Movimento, sogni e bisogni del “proletariato giovanile”, perché pronto a svendere le conquiste del mondo operaio e cogestire il potere con la Democrazia Cristiana. C’era, oltretutto, nell’aria, una forte sensazione di catastrofismo, provocata dalla crisi petrolifera, che aveva improvvisamente svelato la fragilità del decantato benessere del sistema occidentale. Più in generale, si avvertiva l’improvvisa e totale caduta di quell’ottimismo del cambiamento, che, in qualche modo, aveva sorretto i movimenti giovanili, anche nelle forme più estreme. In questo clima, circa un anno prima dell’ufficiale nascita del “Movimento”, il 9 febbraio 1976, iniziò a trasmettere a Bologna, sulla frequenza FM 100.6 MHz, Radio Alice, la stazione che (per prima) diffuse il “linguaggio sporco”. Era una piccola emittente dell’ala creativa del Movimento, con punti di riferimento nella letteratura e nei nouveaux philosophes, piuttosto che nel marxismo (grazie anche alla sua decisa appartenenza allo schieramento ideologico dell’ultrasinistra). Diventò la protagonista della “comunicazione liberata”, cioè: microfono aperto a chiunque volesse parlare, utilizzo selvaggio della diretta ed una produzione culturale senza precedenti.Il perno sul quale ruotava il forte richiamo sui giovani, “politicamente impegnati”, dello stile anomico di Radio Alice, derivava dalla concettualizzazione del fatto che si ha maggiore reattività quando la libertà minacciata è qualcosa di importante e quando è convinzione dell’individuo di avere diritto alla libertà stessa. Del resto, l’emittente bolognese, era conscia che anche la censura può accrescere la reattività: per questo gli slogan da essa lanciati inneggiavano ad una comunicazione totalmente priva di costrizioni, cioè, per l’appunto “liberata”.
Fortemente legata ai principi della filosofia di Marcuse – si pensi al nome stesso, sintomatico dell’intento di negare la realtà (col rifiuto della stessa), per inoltrarsi in un indefinito “paese delle meraviglie” -, dotata di un palinsesto molto aperto e destrutturato e, anzi, per lunghi periodi, addirittura inesistente (improvvisando del tutto la programmazione ed i turni di presenza), Radio Alice, per contro, aveva in comune con le radio private commerciali, un forte legame con la comunità geografica: la sua filosofia movimentista non le impedì, cioè, di comprendere che il rapporto col territorio poteva essere, a volte, più forte di quello ideologico (con i settori della popolazione, importanti ma pur sempre parziali, che ricevevano ed ascoltavano l’emissione). La contestazione di Radio Alice era totale e non risparmiava nessun settore del sistema sociale italiano.Il suo atteggiamento ricalcava alla lettera quanto scritto dal sociologo Neil J. Smelser in merito ai comportamenti collettivi: “l’attacco più drastico al sistema che provoca crisi economiche e depressioni negli affari consisterebbe nell’eliminare il sistema stesso e introdurre alcuni valori socialistici. Tale soluzione è di portata più ampia che non quella che prevede semplicemente la promulgazione di leggi e regolamenti, in quanto essa implica una riorganizzazione dei valori da cui leggi e regolamenti sono legittimati”. A metà strada tra la consapevolezza dell’utopia di un simile programma e la convinzione di aver la possibilità di contribuire a rovesciare il sistema, l’emittente movimentista fu in grado di sviluppare un marchio che produsse musica, filosofia, informazione, teorizzando spontaneismo, rifiuto del lavoro, illegalità. Seguendo la concettualizzazione di Horkheimer e Adorno, per i quali il potere economico e politico non si limita più principalmente allo sfruttamento della forza lavoro, ma permea qualsiasi momento della vita dell’individuo nell’occupazione professionale così come nel tempo libero, Radio Alice, allertava il pubblico, circa la totale riduzione dell’individuo entro uno schema sociale prestabilito: gli individui sarebbero stati, in questa visione, annullati dal sistema economico e politico in quanto manipolati e ridotti a cose.Adorno e Horkheimer, già nel 1966, avevano, infatti, avvertito: “…l’unità del collettivo manipolato consiste nella negazione di ogni singolo; è una beffa a quella società che potrebbe fare dell’individuo un individuo“. L’attività di Radio Alice non si limitò, comunque, alla semplice enunciazione via etere di questi concetti o all’esortazione alla lotta e alla protesta: sotto la sigla di Humpty Dumpty, l’uovo-blob del romanzo di Lewis Carroll, essa distribuì nel circuito delle radio libere un catalogo di concerti, contributi sonori, opere radiofoniche, interviste, che ben rappresentavano la creatività poliforme del ’77. Uno sforzo possibile grazie alla creatività dei militanti, ma soprattutto ad un movimento che seppe mettere la comunicazione prima dell’ideologia, forte della consapevolezza che il medium radiofonico, col suo elevato tasso di sensazione, obbliga il recettore (l’ascoltatore), attraverso lo stimolo della fantasia, a crearsi una realtà dell’informazione ricevuta. L’11 marzo 1977, dopo un’assemblea di Comunione e Liberazione, interrotta da studenti di sinistra, scoppiarono incidenti nella zona universitaria della città felsinea. Il rettore chiamò i carabinieri che aprirono il fuoco senza necessità, colpendo a morte un simpatizzante di Lotta Continua. Seguirono scontri tra giovani e polizia durante i quali fecero scalpore i reiterati incitamenti di Radio Alice alla rivolta ed alla distruzione di proprietà pubbliche e private. La segnalazione via radio, ai dimostranti, della posizione delle forze dell’ordine – che ebbe la conseguenza di favorire direttamente la guerriglia urbana – fu il motivo principale della chiusura della stazione, avvenuto il 12 marzo 1976, a seguito di un provvedimento del sostituto procuratore della Repubblica Riccioni.
Chiusa Radio Alice, il Movimento, cavalcando l’interesse prestato dalla stampa all’avvenimento, prese ad utilizzare (a partire dallo stesso giorno) per i medesimi scopi di lotta, Radio Lara, che, di fatto, prese il posto dell’emittente disattivata. Due giorni dopo anche Radio Lara fu sequestrata, per ordine della magistratura.
I casi delle due emittenti aprirono aspre polemiche circa l’incostituzionalità dei provvedimenti di chiusura. L’eco degli avvenimenti fu così grande che il 22 marzo seguente, il prefetto di Roma dispose la chiusura – annullata poco dopo – per 24 ore, di tutte le 87 stazioni locali della capitale, in quanto il giorno dopo avrebbero avuto luogo comizi indetti da organizzazioni sindacali, per i quali erano prevedibili azioni di disturbo da parte delle radio. Da questi avvenimenti, e da quelli analoghi sviluppatisi in alcune città americane verso la fine degli anni Sessanta, è possibile concludere che – come ci avverte McQuail – in vari modi, diretti ed indiretti, i media possono provocare disordini, creando una cultura degli stessi, fornendo lezioni su come metterli in atto e diffonderli. Il caso di Radio Alice assume, evidentemente, i connotati di un modo diretto di incentivazione ai disordini. Un esempio di azione indiretta, che può contribuire a favorire l’azione violenta, è la semplice segnalazione del verificarsi dei disordini o l’informazione circa la localizzazione degli stessi. Si valuti, a tal proposito, che i media sono inevitabilmente coinvolti in episodi di cronaca e violenza, a causa dell’importanza (per fini informativi) che attribuiscono ad essi, e, di conseguenza – come hanno precisato Schmid e De Graaf – la violenza può essere un mezzo di accesso alla comunicazione di massa ed anche un messaggio in se stessa. In ogni caso, i fatti riportati furono la massima espressione della protesta del Movimento. Da allora iniziò il lento spegnimento del fenomeno: l’ala militarista, non riuscì ad ottenere ciò che voleva e la maggior parte del Movimento, per quanto disgustata dai governi di solidarietà nazionale, non si dimostrò pronta a prendere le armi. I centri giovanili scomparirono un po’ alla volta e la maggioranza dei giovani militanti ingrossò le fila del “riflusso”, ritirandosi nella vita privata, abbandonando l’azione collettiva.L’esperienza di Radio Alice e delle altre stazioni di movimento, estreme conseguenze del decennio di creatività diffusa, inaugurato dal ’68, dimostrarono che la radio libera poteva essere lo sbocco naturale del pensiero culturale, politico e sociale, ma soprattutto che era nelle condizioni di incrementare la funzione del medium verso la massa, cioè, in accordo con il sociologo Mascilli Migliorini “accentuando l’effetto persuasivo nei confronti del pubblico, ma, allo stesso tempo, essendo essa stessa un sottosistema di un complesso sociale e politico, subendone il condizionamento specifico (ideologico, politico ed economico)”. Per contro la rapida scomparsa dalla scena delle emittenti militanti, può essere ricondotta ad un particolare presupposto limitativo della loro filosofia radiofonica, ed all’atteggiamento utopico da esse avuto nei confronti della realtà. Il presupposto limitativo può essere riferito all’informazione implicante di queste emittenti.Contrariamente, infatti, alla stazione generalista – che prendendo atto delle esigenze del pubblico, si conforma ad esse e struttura il proprio palinsesto in vista del soddisfacimento delle necessità dell’utenza – la radio militante presuppone un’audience partecipe e normalmente affine per ideologia politica. Questa posizione comporta una visione del rapporto medium-ascoltatore opposta a quella tradizionale in un regime altamente concorrenziale. Spiegando meglio questa riflessione, possiamo pensare al rapporto mezzo-utente in un regime monopolistico: l’ascoltatore è costretto ad accettare ciò che il medium propone; la sua unica alternativa è, in una fredda logica assolutistica, il “sì” o il “no”, ovvero “l’ascoltare” o il “non ascoltare” (essendo impossibile “ascoltare qualcos’altro”).Al contrario, in un clima di pluralità informativa, avendo il fruitore del servizio la possibilità di scegliere il canale, saranno i media a strutturarsi in modo tale da rendere i propri programmi il più appetibile possibile all’utenza che cercheranno di calamitare. Per quanto si ipotizzasse un servizio specialistico, esso non potrà, in ogni caso, porre troppi vincoli di accesso, poiché, anche in questa condizione, l’obiettivo primario sarà il soddisfare le esigenze di un pubblico il più esteso possibile (in quel segmento di audience). La stazione qui esaminata, agisce in termini contrari: non decide di conformare il proprio ruolo a servizio informativo di un pubblico (per quanto limitato) definito come obiettivo d’ascolto, ma si offre ad un’utenza indefinita che deciderà se allinearsi o meno all’ideologia della trasmittente. Questo atteggiamento comporta una perdita di contatto della radio con le esigenze del pubblico, trasformando il medium in portavoce della sua stessa ideologia, più che di quella del pubblico che vuole raggiungere.In merito all’atteggiamento assunto nei confronti della realtà dall’emittenza militante, come ben evidenziato dal sociologo Alwin W. Gouldner nella sua opera “La crisi della sociologia”, il tentativo di guardare ad essa (la realtà) così come è, porta inevitabilmente (poiché, di fatto, ciò è impossibile), a cadere in errore, scambiando la realtà oggettiva con quella che, invece, è l’interpretazione soggettiva di essa da parte del mondo culturale cui si appartiene. Ciò è, fondamentalmente, quello che accadde alle emittenti politicamente impegnate: nel tentativo di dimostrare che il mondo reale era diverso da quello dipinto da media “asserviti al potere”, caddero esse stesse vittime dello stesso gioco, finendo per difendere una logica di parte (anche se, ovviamente, opposta), con conseguente perdita di contatto con l’oggettività di cui volevano farsi portabandiera. (M.L. per NL)
Estratto da: M. Lualdi, “Le radio locali: una esperienza comunicativa per il pubblico giovanile (1975-77)” – 1996 – Planet s.r.l. – Milano