All’alba dell’entrata in vigore della L. 103/1975 le pressioni per consentire l’accesso pluralistico al mezzo radiotelevisivo stavano diventando sempre più forti.
Non stupisce quindi che alla sordità della forze politiche di maggioranza sopperisse la magistratura costituzionale, la quale, con la storica sentenza 202 del 28 luglio 1976, scardinò l’ormai insostenibile monopolio dell’emittente pubblica nell’esercizio dell’attività radiotelevisiva via etere.
La Consulta, con la citata importante decisione (così pregnante e “creativa” da essere definita da alcuni “sentenza-legge” o “sentenza-legge di delegazione”) – cui avevano dato impulso una serie di ordinanze pretorili di legittimità costituzionale degli artt. 1, 183 e 195 del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (Codice postale e delle telecomunicazioni) e degli artt. 1, 2, 3, 4, 38, 45, 46, 47 e 48 della legge 14 aprile 1975, n. 103 – aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 45 L. 103/75, nella parte in cui non consentiva (previa autorizzazione statale e nei sensi di cui in motivazione) l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione radiofonica e televisiva via etere di portata non eccedente l’ambito locale e, soprattutto, dichiarava, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della citata legge 103/1975, nella parte in cui prevedeva la possibilità che, mediante le realizzazioni di impianti da parte della società concessionaria, fossero esaurite le disponibilità consentite dalle frequenze assegnate all’Italia dagli accordi internazionali per i servizi di radiodiffusione. Via libera quindi alle trasmissioni radiotelevisive su scala locale a condizione che non cagionassero interferenze al servizio pubblico. Rimaneva tuttavia da definire che cosa s’intendesse per ambito locale… Nemmeno il decreto del Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni del 3 dicembre 1976, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.339 del 22 dicembre 1976, con il quale veniva approvato il Piano Nazionale di Ripartizione delle Frequenze (da non confondere con il Piano Nazionale di Assegnazione delle Frequenze, che, come vedremo, non avrebbe mai visto concretamente la luce), riusciva a dipanare la matassa, atteso che si limitava a prevedere che le frequenze delle bande 52,5-68 MHz e 174-223 MHz (tv) e 87,5-104,0 MHz (radio) potessero essere assegnate a stazioni private di radiodiffusione televisiva e sonora ripetitrici di programmi del servizio pubblico e, quando possibile, ad altre stazioni private (con il vincolo di compatibilità con le reti del servizio pubblico nazionale da accertarsi preventivamente a cura del ministero), demandando ad una legge specifica la disciplina generale del settore. La questione, com’era facilmente immaginabile, diede presto origine ad un acceso confronto, dividendo coloro che ritenevano preferibile un metro geografico (ambito provinciale, regionale oppure chilometrico) dai sostenitori del parametro demografico (100.000 abitanti, 500.000 abitanti, ecc.). Nei primi giorni del mese di novembre del 1977, Vincenzo Vita, responsabile per l’informazione del Partito di Unità Proletaria, intervenendo in un convegno sul tema delle emittenti private e della trattativa sulla legge per la regolamentazione del settore, dichiarava infatti: “Le trattative sono ormai vicino all’accordo definitivo tra i sei, tanto da parere prossima la stessa promulgazione della legge (entro tre mesi). I termini del compromesso sono chiari: verrà istituito un consorzio nazionale (di 19 membri) a controllo parlamentare per approntare il piano delle frequenze e le priorità delle autorizzazioni, secondo gli indirizzi regionali e il parere di tre rappresentanti del governo; l’ambito locale sarà precisato sulla base di un bacino di utenza variabile tra 8 Km (per i centri urbani) e 15 Km (per le zone meno popolose)”. Si delineava quindi il primo degli innumerevoli tentativi di definire l’ambito locale attraverso un parametro geografico, se non addirittura urbanistico. Su una posizione diametralmente opposta vi erano, invece, i (pochi) sostenitori della necessità d’individuazione di un parametro slegato da connotazioni geografiche o demografiche. Questa scuola di pensiero veniva ben rappresentata dall’acuta osservazione della rivista Millecanali, che, nello stesso periodo, scriveva: “A quali condizioni un’emittente tv può considerarsi realmente locale? La sentenza della Corte costituzionale che liberalizza le iniziative di tv private purché locali, non lo chiarisce. In attesa delle definizioni giuridiche, legate all’assegnazione delle frequenze, va posta una domanda. E’ giusto considerare “locale” un’emittente solo in quanto trasmette in un’area circoscritta a una parte del territorio nazionale? “Locale” è allora semplicemente un dato tecnico, l’area geografica di emissione corrispondente al raggio e potenza del trasmettitore? O non ci sono piuttosto dei servizi particolari richiesti, delle condizioni di contenuto che possono fare della tv privata una tv locale? Crediamo di sì”. Il ragionamento effettuato dal giornalista della rivista settoriale, appare oggi anticipatore di concetti che avrebbero trovato una totale emersione nell’ambito dello sviluppo di Internet, oltre venti anni dopo. Il quotidiano La Repubblica, commentando, nel novembre 1977, la nascita dell’emittente Antenna 3 Lombardia, che aveva inaugurato le proprie trasmissioni ufficiali trasmettendo un importante incontro di pugilato, a riguardo dell’elevata distribuzione del suo segnale in ambito ultralocale, scriveva: “Si va verso un’articolazione precisa delle strutture: i network nazionali da un lato e le tv private autenticamente locali dall’altro”. Sempre la rivista Millecanali metteva in guardia gli operatori e l’opinione pubblica dal pericoloso rapporto tra una particolare accezione di “concentrazione” (intesa come di capitali e testate, da parte di grandi gruppi) e “diffusione” (attraverso emittenti impiegate unicamente quali ripetitori locali di programmi prodotti in ambito nazionale). Nell’editoriale dell’ottobre 1977, sotto il titolo “Tv private: disperdere per concentrare”, il direttore del periodico osservava che “I responsabili di una delle più potenti emittenti private oggi in funzione sul territorio nazionale ci dichiaravano, poche settimane fa, la loro totale disponibilità ad accettare le limitazioni in ordine al raggio di emissione che dalla nuova legge conseguirebbero. Certo, perché quella, come altre grosse emittenti (…) comprendono in realtà due settori di attività interdipendenti. Una cosa è, infatti, l’emittente vera e propria, il centro di trasmissione che irradia oltre i confini regionali notiziari, film “dirette” e così via. Altro è il centro di produzione che realizza non solo programmi per l’immediata diffusione via etere ma che è anche a capo di un circuito commerciale dei prodotti che raggiunge molte emittenti piccole e medie sparse sul territorio della penisola o installate poco dietro i confini nazionali”. Osservava il giornalista specializzato: “Ciò significa che esiste in realtà un doppio canale di diffusione: quello “reale” – più o meno territorialmente circoscritto – e uno infinitamente più vasto, e potenzialmente sempre estensibile. Esiste, di fatto, un raggio di emissione dichiarato, una potenza tecnicamente e giuridicamente controllabile, ed esiste un raggio d’azione, un circuito “sotterraneo” e parallelo. E’ un sistema che offre indubbiamente ampie garanzie: si può scavalcare qualsiasi limitazione alla creazione di catene e concentrazioni “esplicite”, si possono scavalcare controlli nella concessione delle frequenze in sede locale”. Non era ancora stata “fatta la legge” (di sistema) e già pareva essere stato “trovato l’inganno”! I grandi gruppi editoriali stavano, in effetti, percorrendo due strade differenti verso un unico obiettivo: la costituzione di catene televisive nazionali. Se non si fosse riusciti a scardinare il residuo monopolio pubblico sulla diffusione tv in ambito nazionale in interconnessione strutturale (cioè con collegamenti in ponte radio), attraverso continue sollecitazioni alla Corte costituzionale, oppure facendo approvare una legge liberalizzatrice, sarebbe stata proseguita la soluzione alternativa della costituzione di network di emittenti locali i cui programmi sarebbero stati realizzati e distribuiti da pochi grandi centri di produzione (che di fatto avrebbero controllato sia il mercato della produzione che della raccolta pubblicitaria nazionale, impiegando le emittenti locali come semplici ripetitori). Osservava a riguardo, con acume, Millecanali: “E’ anche, probabilmente, il sistema più redditizio: trasmettere pubblicità su zone – per ora – anche vaste significa, nel migliore dei casi, “coprire” i confini regionali; vendere programmi realizzati per un circuito commerciale con short pubblicitario in coda – o addirittura programmi sponsorizzati – significa di fatto costruire un circuito pubblicitario nazionale. Per questo una regolamentazione tutta tecnica alle tv miliardarie non fa paura. Due, tre, cinque centri che concentrano la produzione di programmi tv e fungono, con le proprie emissioni, da base di lancio dei programmi preconfezionati, e una miriade di emittenti (…) diffuse sul territorio che si muovono nel circuito commerciale aggiudicandosi le prime, le seconde, le terze visioni”. “Non ci piace costruire immagini apocalittiche” – concludeva infine l’editoriale del mensile di settore – “ma cos’è questa, se non l’immagine del nuovo sistemi degli oligopoli?”.Il rischio della costituzione di grosse concentrazioni editoriali anche nel settore radiotelevisivo era infatti di grande e diffuso interesse, come ben rappresentato, tra gli altri, dall’intervento del giornalista Giulietto Chiesa, membro del Consiglio Regionale per la Liguria, che in una seduta del 1978 avente tema “La riforma del servizio radiotelevisivo” ebbe argutamente a sostenere che “Attardandosi nella definizione di ambito locale” il nostro paese “ha stabilito un criterio che è esattamente il contrario del criterio di gestione sociale – e nell’interesse sociale – di un bene pubblico fondamentale. Ha proposto cioè il criterio dell’economicità d’azienda come unico valido per giungere alla definizione di «ambito locale», aggiungendo con un’affermazione, peraltro attualissima, che “si vuole riproporre nel campo dell’informazione – che è ancora più importante e più decisivo – il criterio della giungla incontrollata degli interessi privatistici a puro scopo di profitto e, in ultima analisi, di manipolazione delle coscienze”. Ad ulteriore dimostrazione di quanto fossero mutevoli le posizioni per la determinazione dell’ambito delle trasmissioni locali, si riporta uno stralcio di un articolo del 23 dicembre 1977 del quotidiano La Repubblica, nel quale s’informava che “gli esperti dei sei partiti dell’intesa programmatica” avevano raggiunto un “sostanziale accordo politico sulla futura legge di regolamentazione dell’etere” e che, nel merito “dell’ambito locale (cioè il raggio di trasmissione)”, si era definito un criterio misto geografico-demografico in base al quale l’area raggiungibile da ciascuna stazione avrebbe dovuto essere “compresa tra i 12 e i 15 chilometri (qualcuno proponeva massimo 10 Km)”, mentre le emittenti “avrebbero potuto servire (“bacino d’utenza”) un numero di abitanti tra i 300 e i 500 mila”. Le emittenti locali, per parte propria, spingevano nella direzione della dimensione della diffusione sostanzialmente coincidente (questioni tecniche permettendo) con la regione: “L’ambito giusto da non superare è quello regionale. L’ambito cittadino o provinciale è difficile da realizzare anche dal punto di vista tecnico, perché non si può mettere un paravento che blocchi le onde”, dichiarava a Millecanali nell’ottobre 1977 il responsabile della tv romana Video Uno. La tendenza, tuttavia, appariva essere quella del progressivo ampliamento sia del parametro geografico che di quello demografico, come attestato dal disegno di legge sulla disciplina del sistema radiotelevisivo approvato nel giugno 1978 dal Consiglio dei ministri, di cui dava conto il quotidiano La Stampa il 23 giugno 1978: “Il disegno di legge – spiegava il giornale – che ora passerà al vaglio del Parlamento, ribadisce il monopolio delle trasmissioni radiofoniche e televisive su scala nazionale, in quanto servizio pubblico essenziale, ma assicura un largo spazio alle emittenti private locali. Il piano di assegnazione delle frequenze sarà predisposto oltre che dagli organi tecnici del ministero anche con l’intervento delle regioni e delle province autonome. Nel determinare i criteri per il rilascio delle autorizzazioni ai privati si è cercato di garantire, nella misura massima possibile, l’esercizio del diritto di iniziativa privata sancito dalla Costituzione. L’ambito in cui potranno irradiare le TV locali sarà suddiviso in aree metropolitane ed extrametropolitane. Le emissioni potranno raggiungere i 15 Km, elevabili a 20. Negli ‘ambiti’ extrametropolitani un’emittente potrà servire un’area comprendente un milione di abitanti, in casi eccezionali un milione e mezzo. Per quanto riguarda le licenze, il disegno di legge stabilisce che ciascun titolare potrà avere da una a quattro concessioni, purché il numero delle domande sia inferiore a quello delle frequenze disponibili e purché con esse non sia servita più del 15% della popolazione nazionale. La pubblicità non potrà superare il 10% delle ore di trasmissione”. Il d.d.l. si era ovviamente formato anche sulla base di una serie di indicazioni rese dal Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni che, a riguardo della determinazione dell’ambito territoriale entro il quale il privato aveva il diritto di svolgere attività radiotelevisiva aveva evidenziato, in una propria relazione, come esso fosse “un aspetto fondamentale della complessa problematica connessa all’esercizio dell’iniziativa privata in materia”, che necessariamente doveva essere ancorato ai principi indicati dalla Corte costituzionale, che rimandava a “ragionevoli parametri di ordine geografico, civico, socio-economico, che consentano di circoscrivere una limitata ed omogenea zona di utenza senza peraltro eccessive registrazioni, tali da vanificare l’esercizio medesimo”. Il Ministero richiamava l’attenzione sulla necessità di procedere ad una “utilizzazione ottimale in termini pluralistici dello spettro (radioelettrico, ndr)”, che avrebbe potuto essere raggiunta “soltanto restringendo entro certi limiti l’area di servizio di ciascuna stazione”, così conseguendo la possibilità di riutilizzare la stessa frequenza ad una distanza non eccessiva, tenendo anche conto del grado di compatibilità con le stazioni del servizio pubblico nazionale. Per converso, precisavano i tecnici ministeriali, “si deve anche tener conto della necessità di non restringere troppo le dimensioni dell’area di servizio per non vanificare l’esercizio concreto del diritto dei privati, atteso che impianti con raggi di azione troppo limitati rendono l’iniziativa antieconomica e improduttiva”, osservando come non potessero non essere privilegiate le zone del territorio nazionale in cui vi era una forte concentrazione di popolazione. In base ai dati tecnici acquisiti, per il dicastero delle Telecomunicazioni, la soluzione ottimale, in rapporto alle accertate esigenze, sarebbe stata quella che avesse definito l’ambito locale “con riguardo a singoli capoluoghi di provincia, ovvero a più centri abitati tra loro collegabili con il doppio limite di estensione territoriale (15 Km di raggio massimo per gli impianti televisivi e 20 km per gli impianti radio) e di popolazione (non inferiore a 100.000 abitanti)”, opportunamente precisando che tale soluzione non avrebbe potuto e dovuto essere applicata rigidamente, dovendosi tener conto delle particolari situazioni che potevano presentarsi a riguardo delle singole località. In considerazione di tali circostanze sarebbe stato necessario – a detta degli esperti del Ministero delle Poste e delle tlc – “prevedere in via gradata la possibilità di derogare a tali limiti”, nel caso che ciò rispondesse meglio alla dislocazione degli insediamenti abitativi nella zona e non sussistessero ostacoli tecnici, nonché, “in via ancora più gradata, la possibilità di far luogo, sempre in deroga ai predetti limiti, ad una cogurazione dell’ambito locale diversa da quella tipica sopra indicata utilizzando le frequenze rimaste eventualmente disponibili dopo aver soddisfatto le richieste di autorizzazione validamente avanzate”. Il Ministero suggeriva, in ogni caso, al fine di evitare che l’estensione territoriale diventasse troppo elevata (nell’ipotesi di deroghe), l’introduzione di un particolare limite demografico (concorrente), che portasse ad un’illuminazione non superiore a 500.000 abitanti. Qualora, poi, una verifica degli aspetti finanziari dell’iniziativa editoriale avesse condotto alla conclusione che occorresse assicurare agli impianti un’area di servizio più ampia, per i tecnici incaricati della stesura della relazione a corollario del d.d.l., si sarebbero potute esaminare altre ipotesi, tenendo presente però che alla maggiore ampiezza del raggio d’azione degli impianti sarebbe conseguita inevitabilmente una drastica riduzione del numero delle possibili autorizzazioni, richiamando quindi l’attenzione sul fatto che, ipotizzando un ambito locale a dimensione regionale e quindi con impianti di elevata potenza, la conseguente propagazione delle interferenze avrebbe determinato “la riduzione della possibilità offerta dalla precedente soluzione valutabile in almeno il 50% e, in qualche caso (ad es. Pianura Padana), anche maggiore”. I suggerimenti del Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni vennero pressoché integralmente assorbiti nel testo del d.d.l., nel quale, tuttavia, confluirono – oltre ad una serie di confuse indicazioni con le quali si attribuiva ad un Comitato Nazionale per la Radiodiffusione il compito di predisporre i “Piani nazionali di utilizzazione delle frequenze”, attraverso il coinvolgimento delle regioni – anche una sequela di assurde limitazioni di carattere strettamente tecnico, quali il divieto per gli impianti trasmittenti televisivi “di avere una potenza effettiva irradiata, secondo la definizione del Regolamento Internazionale delle Radiotelecomunicazioni, superiore a 1000 Watt nelle varie direzione ed una altezza dell’antenna trasmittente superiore a 150 metri sulla media del territorio circostante”, mentre per gli impianti radiofonici (che dovevano operare sono in Modulazione di Frequenza), la potenza veniva fissata in 200 Watt e l’altezza del sistema radiante in 100 metri. Ne derivò un pastrocchio normativo destinato a sicuro fallimento (come infatti avvenne), sicché si proseguì con interventi della magistratura penale e civile che tentarono, spesso in maniera contraddittoria o tautologica (del tipo: “è locale la trasmissione che non è diffusa a livello nazionale”), di definire i limiti di copertura (e quindi di espansione editoriale, commerciale ed imprenditoriale) di quelle emittenti che si stavano ormai sviluppando dopo la fase sperimentale del primo quinquennio successivamente alla “liberalizzazione dell’etere”, con un orientamento prevalentemente negatorio della possibilità di svilupparsi oltre il convenzionale ambito locale costituito dalla regione di appartenenza. (M.L. per NL)
La Consulta, con la citata importante decisione (così pregnante e “creativa” da essere definita da alcuni “sentenza-legge” o “sentenza-legge di delegazione”) – cui avevano dato impulso una serie di ordinanze pretorili di legittimità costituzionale degli artt. 1, 183 e 195 del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (Codice postale e delle telecomunicazioni) e degli artt. 1, 2, 3, 4, 38, 45, 46, 47 e 48 della legge 14 aprile 1975, n. 103 – aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 45 L. 103/75, nella parte in cui non consentiva (previa autorizzazione statale e nei sensi di cui in motivazione) l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione radiofonica e televisiva via etere di portata non eccedente l’ambito locale e, soprattutto, dichiarava, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della citata legge 103/1975, nella parte in cui prevedeva la possibilità che, mediante le realizzazioni di impianti da parte della società concessionaria, fossero esaurite le disponibilità consentite dalle frequenze assegnate all’Italia dagli accordi internazionali per i servizi di radiodiffusione. Via libera quindi alle trasmissioni radiotelevisive su scala locale a condizione che non cagionassero interferenze al servizio pubblico. Rimaneva tuttavia da definire che cosa s’intendesse per ambito locale… Nemmeno il decreto del Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni del 3 dicembre 1976, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.339 del 22 dicembre 1976, con il quale veniva approvato il Piano Nazionale di Ripartizione delle Frequenze (da non confondere con il Piano Nazionale di Assegnazione delle Frequenze, che, come vedremo, non avrebbe mai visto concretamente la luce), riusciva a dipanare la matassa, atteso che si limitava a prevedere che le frequenze delle bande 52,5-68 MHz e 174-223 MHz (tv) e 87,5-104,0 MHz (radio) potessero essere assegnate a stazioni private di radiodiffusione televisiva e sonora ripetitrici di programmi del servizio pubblico e, quando possibile, ad altre stazioni private (con il vincolo di compatibilità con le reti del servizio pubblico nazionale da accertarsi preventivamente a cura del ministero), demandando ad una legge specifica la disciplina generale del settore. La questione, com’era facilmente immaginabile, diede presto origine ad un acceso confronto, dividendo coloro che ritenevano preferibile un metro geografico (ambito provinciale, regionale oppure chilometrico) dai sostenitori del parametro demografico (100.000 abitanti, 500.000 abitanti, ecc.). Nei primi giorni del mese di novembre del 1977, Vincenzo Vita, responsabile per l’informazione del Partito di Unità Proletaria, intervenendo in un convegno sul tema delle emittenti private e della trattativa sulla legge per la regolamentazione del settore, dichiarava infatti: “Le trattative sono ormai vicino all’accordo definitivo tra i sei, tanto da parere prossima la stessa promulgazione della legge (entro tre mesi). I termini del compromesso sono chiari: verrà istituito un consorzio nazionale (di 19 membri) a controllo parlamentare per approntare il piano delle frequenze e le priorità delle autorizzazioni, secondo gli indirizzi regionali e il parere di tre rappresentanti del governo; l’ambito locale sarà precisato sulla base di un bacino di utenza variabile tra 8 Km (per i centri urbani) e 15 Km (per le zone meno popolose)”. Si delineava quindi il primo degli innumerevoli tentativi di definire l’ambito locale attraverso un parametro geografico, se non addirittura urbanistico. Su una posizione diametralmente opposta vi erano, invece, i (pochi) sostenitori della necessità d’individuazione di un parametro slegato da connotazioni geografiche o demografiche. Questa scuola di pensiero veniva ben rappresentata dall’acuta osservazione della rivista Millecanali, che, nello stesso periodo, scriveva: “A quali condizioni un’emittente tv può considerarsi realmente locale? La sentenza della Corte costituzionale che liberalizza le iniziative di tv private purché locali, non lo chiarisce. In attesa delle definizioni giuridiche, legate all’assegnazione delle frequenze, va posta una domanda. E’ giusto considerare “locale” un’emittente solo in quanto trasmette in un’area circoscritta a una parte del territorio nazionale? “Locale” è allora semplicemente un dato tecnico, l’area geografica di emissione corrispondente al raggio e potenza del trasmettitore? O non ci sono piuttosto dei servizi particolari richiesti, delle condizioni di contenuto che possono fare della tv privata una tv locale? Crediamo di sì”. Il ragionamento effettuato dal giornalista della rivista settoriale, appare oggi anticipatore di concetti che avrebbero trovato una totale emersione nell’ambito dello sviluppo di Internet, oltre venti anni dopo. Il quotidiano La Repubblica, commentando, nel novembre 1977, la nascita dell’emittente Antenna 3 Lombardia, che aveva inaugurato le proprie trasmissioni ufficiali trasmettendo un importante incontro di pugilato, a riguardo dell’elevata distribuzione del suo segnale in ambito ultralocale, scriveva: “Si va verso un’articolazione precisa delle strutture: i network nazionali da un lato e le tv private autenticamente locali dall’altro”. Sempre la rivista Millecanali metteva in guardia gli operatori e l’opinione pubblica dal pericoloso rapporto tra una particolare accezione di “concentrazione” (intesa come di capitali e testate, da parte di grandi gruppi) e “diffusione” (attraverso emittenti impiegate unicamente quali ripetitori locali di programmi prodotti in ambito nazionale). Nell’editoriale dell’ottobre 1977, sotto il titolo “Tv private: disperdere per concentrare”, il direttore del periodico osservava che “I responsabili di una delle più potenti emittenti private oggi in funzione sul territorio nazionale ci dichiaravano, poche settimane fa, la loro totale disponibilità ad accettare le limitazioni in ordine al raggio di emissione che dalla nuova legge conseguirebbero. Certo, perché quella, come altre grosse emittenti (…) comprendono in realtà due settori di attività interdipendenti. Una cosa è, infatti, l’emittente vera e propria, il centro di trasmissione che irradia oltre i confini regionali notiziari, film “dirette” e così via. Altro è il centro di produzione che realizza non solo programmi per l’immediata diffusione via etere ma che è anche a capo di un circuito commerciale dei prodotti che raggiunge molte emittenti piccole e medie sparse sul territorio della penisola o installate poco dietro i confini nazionali”. Osservava il giornalista specializzato: “Ciò significa che esiste in realtà un doppio canale di diffusione: quello “reale” – più o meno territorialmente circoscritto – e uno infinitamente più vasto, e potenzialmente sempre estensibile. Esiste, di fatto, un raggio di emissione dichiarato, una potenza tecnicamente e giuridicamente controllabile, ed esiste un raggio d’azione, un circuito “sotterraneo” e parallelo. E’ un sistema che offre indubbiamente ampie garanzie: si può scavalcare qualsiasi limitazione alla creazione di catene e concentrazioni “esplicite”, si possono scavalcare controlli nella concessione delle frequenze in sede locale”. Non era ancora stata “fatta la legge” (di sistema) e già pareva essere stato “trovato l’inganno”! I grandi gruppi editoriali stavano, in effetti, percorrendo due strade differenti verso un unico obiettivo: la costituzione di catene televisive nazionali. Se non si fosse riusciti a scardinare il residuo monopolio pubblico sulla diffusione tv in ambito nazionale in interconnessione strutturale (cioè con collegamenti in ponte radio), attraverso continue sollecitazioni alla Corte costituzionale, oppure facendo approvare una legge liberalizzatrice, sarebbe stata proseguita la soluzione alternativa della costituzione di network di emittenti locali i cui programmi sarebbero stati realizzati e distribuiti da pochi grandi centri di produzione (che di fatto avrebbero controllato sia il mercato della produzione che della raccolta pubblicitaria nazionale, impiegando le emittenti locali come semplici ripetitori). Osservava a riguardo, con acume, Millecanali: “E’ anche, probabilmente, il sistema più redditizio: trasmettere pubblicità su zone – per ora – anche vaste significa, nel migliore dei casi, “coprire” i confini regionali; vendere programmi realizzati per un circuito commerciale con short pubblicitario in coda – o addirittura programmi sponsorizzati – significa di fatto costruire un circuito pubblicitario nazionale. Per questo una regolamentazione tutta tecnica alle tv miliardarie non fa paura. Due, tre, cinque centri che concentrano la produzione di programmi tv e fungono, con le proprie emissioni, da base di lancio dei programmi preconfezionati, e una miriade di emittenti (…) diffuse sul territorio che si muovono nel circuito commerciale aggiudicandosi le prime, le seconde, le terze visioni”. “Non ci piace costruire immagini apocalittiche” – concludeva infine l’editoriale del mensile di settore – “ma cos’è questa, se non l’immagine del nuovo sistemi degli oligopoli?”.Il rischio della costituzione di grosse concentrazioni editoriali anche nel settore radiotelevisivo era infatti di grande e diffuso interesse, come ben rappresentato, tra gli altri, dall’intervento del giornalista Giulietto Chiesa, membro del Consiglio Regionale per la Liguria, che in una seduta del 1978 avente tema “La riforma del servizio radiotelevisivo” ebbe argutamente a sostenere che “Attardandosi nella definizione di ambito locale” il nostro paese “ha stabilito un criterio che è esattamente il contrario del criterio di gestione sociale – e nell’interesse sociale – di un bene pubblico fondamentale. Ha proposto cioè il criterio dell’economicità d’azienda come unico valido per giungere alla definizione di «ambito locale», aggiungendo con un’affermazione, peraltro attualissima, che “si vuole riproporre nel campo dell’informazione – che è ancora più importante e più decisivo – il criterio della giungla incontrollata degli interessi privatistici a puro scopo di profitto e, in ultima analisi, di manipolazione delle coscienze”. Ad ulteriore dimostrazione di quanto fossero mutevoli le posizioni per la determinazione dell’ambito delle trasmissioni locali, si riporta uno stralcio di un articolo del 23 dicembre 1977 del quotidiano La Repubblica, nel quale s’informava che “gli esperti dei sei partiti dell’intesa programmatica” avevano raggiunto un “sostanziale accordo politico sulla futura legge di regolamentazione dell’etere” e che, nel merito “dell’ambito locale (cioè il raggio di trasmissione)”, si era definito un criterio misto geografico-demografico in base al quale l’area raggiungibile da ciascuna stazione avrebbe dovuto essere “compresa tra i 12 e i 15 chilometri (qualcuno proponeva massimo 10 Km)”, mentre le emittenti “avrebbero potuto servire (“bacino d’utenza”) un numero di abitanti tra i 300 e i 500 mila”. Le emittenti locali, per parte propria, spingevano nella direzione della dimensione della diffusione sostanzialmente coincidente (questioni tecniche permettendo) con la regione: “L’ambito giusto da non superare è quello regionale. L’ambito cittadino o provinciale è difficile da realizzare anche dal punto di vista tecnico, perché non si può mettere un paravento che blocchi le onde”, dichiarava a Millecanali nell’ottobre 1977 il responsabile della tv romana Video Uno. La tendenza, tuttavia, appariva essere quella del progressivo ampliamento sia del parametro geografico che di quello demografico, come attestato dal disegno di legge sulla disciplina del sistema radiotelevisivo approvato nel giugno 1978 dal Consiglio dei ministri, di cui dava conto il quotidiano La Stampa il 23 giugno 1978: “Il disegno di legge – spiegava il giornale – che ora passerà al vaglio del Parlamento, ribadisce il monopolio delle trasmissioni radiofoniche e televisive su scala nazionale, in quanto servizio pubblico essenziale, ma assicura un largo spazio alle emittenti private locali. Il piano di assegnazione delle frequenze sarà predisposto oltre che dagli organi tecnici del ministero anche con l’intervento delle regioni e delle province autonome. Nel determinare i criteri per il rilascio delle autorizzazioni ai privati si è cercato di garantire, nella misura massima possibile, l’esercizio del diritto di iniziativa privata sancito dalla Costituzione. L’ambito in cui potranno irradiare le TV locali sarà suddiviso in aree metropolitane ed extrametropolitane. Le emissioni potranno raggiungere i 15 Km, elevabili a 20. Negli ‘ambiti’ extrametropolitani un’emittente potrà servire un’area comprendente un milione di abitanti, in casi eccezionali un milione e mezzo. Per quanto riguarda le licenze, il disegno di legge stabilisce che ciascun titolare potrà avere da una a quattro concessioni, purché il numero delle domande sia inferiore a quello delle frequenze disponibili e purché con esse non sia servita più del 15% della popolazione nazionale. La pubblicità non potrà superare il 10% delle ore di trasmissione”. Il d.d.l. si era ovviamente formato anche sulla base di una serie di indicazioni rese dal Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni che, a riguardo della determinazione dell’ambito territoriale entro il quale il privato aveva il diritto di svolgere attività radiotelevisiva aveva evidenziato, in una propria relazione, come esso fosse “un aspetto fondamentale della complessa problematica connessa all’esercizio dell’iniziativa privata in materia”, che necessariamente doveva essere ancorato ai principi indicati dalla Corte costituzionale, che rimandava a “ragionevoli parametri di ordine geografico, civico, socio-economico, che consentano di circoscrivere una limitata ed omogenea zona di utenza senza peraltro eccessive registrazioni, tali da vanificare l’esercizio medesimo”. Il Ministero richiamava l’attenzione sulla necessità di procedere ad una “utilizzazione ottimale in termini pluralistici dello spettro (radioelettrico, ndr)”, che avrebbe potuto essere raggiunta “soltanto restringendo entro certi limiti l’area di servizio di ciascuna stazione”, così conseguendo la possibilità di riutilizzare la stessa frequenza ad una distanza non eccessiva, tenendo anche conto del grado di compatibilità con le stazioni del servizio pubblico nazionale. Per converso, precisavano i tecnici ministeriali, “si deve anche tener conto della necessità di non restringere troppo le dimensioni dell’area di servizio per non vanificare l’esercizio concreto del diritto dei privati, atteso che impianti con raggi di azione troppo limitati rendono l’iniziativa antieconomica e improduttiva”, osservando come non potessero non essere privilegiate le zone del territorio nazionale in cui vi era una forte concentrazione di popolazione. In base ai dati tecnici acquisiti, per il dicastero delle Telecomunicazioni, la soluzione ottimale, in rapporto alle accertate esigenze, sarebbe stata quella che avesse definito l’ambito locale “con riguardo a singoli capoluoghi di provincia, ovvero a più centri abitati tra loro collegabili con il doppio limite di estensione territoriale (15 Km di raggio massimo per gli impianti televisivi e 20 km per gli impianti radio) e di popolazione (non inferiore a 100.000 abitanti)”, opportunamente precisando che tale soluzione non avrebbe potuto e dovuto essere applicata rigidamente, dovendosi tener conto delle particolari situazioni che potevano presentarsi a riguardo delle singole località. In considerazione di tali circostanze sarebbe stato necessario – a detta degli esperti del Ministero delle Poste e delle tlc – “prevedere in via gradata la possibilità di derogare a tali limiti”, nel caso che ciò rispondesse meglio alla dislocazione degli insediamenti abitativi nella zona e non sussistessero ostacoli tecnici, nonché, “in via ancora più gradata, la possibilità di far luogo, sempre in deroga ai predetti limiti, ad una cogurazione dell’ambito locale diversa da quella tipica sopra indicata utilizzando le frequenze rimaste eventualmente disponibili dopo aver soddisfatto le richieste di autorizzazione validamente avanzate”. Il Ministero suggeriva, in ogni caso, al fine di evitare che l’estensione territoriale diventasse troppo elevata (nell’ipotesi di deroghe), l’introduzione di un particolare limite demografico (concorrente), che portasse ad un’illuminazione non superiore a 500.000 abitanti. Qualora, poi, una verifica degli aspetti finanziari dell’iniziativa editoriale avesse condotto alla conclusione che occorresse assicurare agli impianti un’area di servizio più ampia, per i tecnici incaricati della stesura della relazione a corollario del d.d.l., si sarebbero potute esaminare altre ipotesi, tenendo presente però che alla maggiore ampiezza del raggio d’azione degli impianti sarebbe conseguita inevitabilmente una drastica riduzione del numero delle possibili autorizzazioni, richiamando quindi l’attenzione sul fatto che, ipotizzando un ambito locale a dimensione regionale e quindi con impianti di elevata potenza, la conseguente propagazione delle interferenze avrebbe determinato “la riduzione della possibilità offerta dalla precedente soluzione valutabile in almeno il 50% e, in qualche caso (ad es. Pianura Padana), anche maggiore”. I suggerimenti del Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni vennero pressoché integralmente assorbiti nel testo del d.d.l., nel quale, tuttavia, confluirono – oltre ad una serie di confuse indicazioni con le quali si attribuiva ad un Comitato Nazionale per la Radiodiffusione il compito di predisporre i “Piani nazionali di utilizzazione delle frequenze”, attraverso il coinvolgimento delle regioni – anche una sequela di assurde limitazioni di carattere strettamente tecnico, quali il divieto per gli impianti trasmittenti televisivi “di avere una potenza effettiva irradiata, secondo la definizione del Regolamento Internazionale delle Radiotelecomunicazioni, superiore a 1000 Watt nelle varie direzione ed una altezza dell’antenna trasmittente superiore a 150 metri sulla media del territorio circostante”, mentre per gli impianti radiofonici (che dovevano operare sono in Modulazione di Frequenza), la potenza veniva fissata in 200 Watt e l’altezza del sistema radiante in 100 metri. Ne derivò un pastrocchio normativo destinato a sicuro fallimento (come infatti avvenne), sicché si proseguì con interventi della magistratura penale e civile che tentarono, spesso in maniera contraddittoria o tautologica (del tipo: “è locale la trasmissione che non è diffusa a livello nazionale”), di definire i limiti di copertura (e quindi di espansione editoriale, commerciale ed imprenditoriale) di quelle emittenti che si stavano ormai sviluppando dopo la fase sperimentale del primo quinquennio successivamente alla “liberalizzazione dell’etere”, con un orientamento prevalentemente negatorio della possibilità di svilupparsi oltre il convenzionale ambito locale costituito dalla regione di appartenenza. (M.L. per NL)