Roma – Pandora, il servizio di raccomandazioni musicali “scientifiche” scaturito da Music Genome Project, fondato sull’individuazione di tratti di affinità fra brani musicali e lo streaming gratuito, è costretto a proibire la fruizione da parte del pubblico non statunitense: il sistema di rilascio delle licenze e di retribuzione degli aventi diritto è infatti valido negli States ma è privo di un corrispettivo nel resto del mondo.
Ora c’è il filtraggio degli indirizzi IP a vigilare sugli accessi, ma il problema, in realtà, si poneva anche in precedenza: Pandora è nata per un’utenza statunitense, a cambiare è solo il tipo di controllo. Se fino ai giorni scorsi a più della metà dei sei milioni di utenti registrati bastava inserire uno zip code statunitense per fruire del servizio, ora l’operazione si complica. Non poi tanto: in Rete già proliferano le guide all’accesso di Pandora. Ma, scavalcato l’ostacolo del login, rimane insoluta la questione dei diritti, che sta a monte della dolorosa scelta del “blocco”.
Pandora opera nel quadro della legge USA: i detentori di diritti sono tenuti a rilasciare una licenza obbligatoria per le radio sul Web, e vengono retribuiti dalle Web radio in base a regolamentazioni stabilite dallo stato. Regole sensibili alle pressioni delle associazioni che rappresentano i detentori di diritti: lo dimostra il significativo rincaro delle tariffe che le radio online, Pandora compresa, devono corrispondere per le licenze.
Ciò vale per gli Stati Uniti, in cui l’evolvere della legislazione è spesso ben allineata con l’evolvere del mercato e degli interessi che lo muovono, ma non vale per altri paesi, nei quali vuoti legislativi o regolamentazioni ancora confuse delegano la negoziazione al singolo provider del servizio e ai singoli detentori dei diritti, per ogni opera trasmessa. Un’operazione dispendiosa e logorante, se non impossibile, soprattutto per un servizio di così ampio respiro.
Sono significative, riguardo alla natura e alla gravità del problema, le scuse accorate, le istruzioni per richiedere i rimborsi, e la promessa di Pandora di mantenere i dati e le preferenze dell’utente, in attesa di poter operare alle stesse condizioni in tutti i paesi, o di ottenere l’autorizzazione a trasmettere da parte dei detentori dei diritti (in Canada e Regno Unito, segnala vnunet.com, pare ci siano già i presupposti, anche se non c’è chiarezza riguardo alla sospensione del servizio).
Tim Wester, fondatore di Pandora, auspica, in un post del blog ufficiale, un sistema di licenze capace di operare in maniera omogenea a livello internazionale, adeguato ad un mercato globale come quello della musica. Un sistema che possa consentire a Pandora e ad altri provider di dispiegare la propria offerta su scala globale e in maniera uniforme, un sistema spesso frenato dalla diffidente opposizione delle etichette nei confronti di ciò che è digitale, e non direttamente controllabile.
Un atteggiamento che dimostra quanto le major non abbiano compreso come le web radio, e i servizi di raccomandazione musicale come Pandora, possano rappresentare una fucina di nuovi acquirenti: ampliano gli orizzonti dell’ascoltatore di musica, e in alcuni casi, come per Pandora, rendono l’acquisto delle opere semplice e immediato, attraverso i link diretti ad iTunes e Amazon.
Ma le etichette non peccano solamente di scarsa lungimiranza e si scarso fiuto per gli affari. Gerd Leonhard, autore di “The future of music”, non risparmia un commento caustico in proposito, osservando come questa manchevolezza delle associazioni che rappresentano i detentori dei diritti possa rallentare il configurarsi di un futuro di profitto. Intralciando e scoraggiando lo sviluppo di proposte innovative che intendono operare in un quadro di legalità, le major non fanno che incentivare l’avvento di servizi che agiscono nell’ombra per soddisfare le esigenze dei “criminali”, dei netizen che non possono approfittare di alternative valide, legali, di qualità.
Gaia Bottà