di Gianluca Navarrini
Roma – È di quale giorno fa la diffusione di una notizia – riportata, tra gli altri, dal blog di Chartitalia – piuttosto bizzarra. Mutuando le parole dal suddetto blog, sia sufficiente dire che, sino a qualche settimana fa, coloro che avevano sottoscritto la licenza SIAE relativa al webcasting, potevano diffondere in webradio qualsiasi brano musicale, proprio come avviene per le normali radio via etere. Ma, recentemente, un nutrito gruppo di titolari di diritti d’autore – avvalendosi della clausola n. 6 del medesimo contratto di licenza – ha negato ogni autorizzazione alla diffusione delle proprie opere via webradio.
La notizia ha destato la mia curiosità e, così, sono andato ad esaminare il contratto di licenza in discorso e, in particolare, la clausola n. 6.
La scoperta che ho fatto è stata sconcertante: la SIAE – in modo tutt’affatto originale rispetto alla prassi applicativa da decenni seguita per il broadcasting tradizionale (e, forse, in tal modo abusando della sua posizione di monopolista legale ex art. 180 LDA) – autorizza la programmazione radiofonica via web di tutti i contenuti musicali affidati alla sua tutela, ma, al contempo, riserva agli aventi diritto (ecco, in breve, il contenuto della richiamata clausola n. 6) la prerogativa di inibire al licenziatario l’uso web-radiofonico di questo o quel brano.
Il bello – si fa per dire – è che:
a) l’esercizio, da parte degli aventi diritto, della facoltà di escludere dalla programmazione webcasting le proprie opere non incide né sulla misura del corrispettivo che il licenziatario deve alla SIAE, né dà a questi diritto di recedere dal contratto di licenza;
b) una simile previsione riguarda non solo il il webcasting “amatoriale”, ma anche quello d’impresa (quello, cioè, che mira a far profitti, ad esempio, attraverso la pubblicità).
Ciò detto, esaminiamo più da vicino alcuni aspetti della vicenda.
Quella modifica al regolamento SIAE
È subito apparso evidente che il contratto di licenza alla trasmissione di musica in streaming su una webradio è ben diverso da quello predisposto per la trasmissione via etere, giacché nel primo caso la SIAE ha formulato riserve a favore degli aventi diritto che nel secondo non sono presenti. E ciò, benchè la sostanza dell’attività non muti: esercizio del diritto di diffusione si ha in un caso come nell’altro, anche se il mezzo tecnico è sensibilmente diverso. Non si dubita, dunque, della opportuna presenza di clausole giustificate dalla diversità tecnica del mezzo (ad esempio, è chiaro che la radio tradizionale non consente la sincronizzazione tra musica e immagini), ma ciò che lascia fortemente perplessi è la presenza di una clausola che caratterizza pesantemente il solo contratto di licenza per le webradio.
Alludo, fuor di metafora, alla già citata clausola n. 6, che dispone: “Qualora intervenga una specifica richiesta da parte degli aventi diritto, la SIAE potrà inibire l’uso di alcune o di tutte le opere ad essi appartenenti, in relazione al loro particolare utilizzo previsto dalla presente autorizzazione”. Analoga previsione, infatti, non è presente nell’ordinario contratto di licenza radiofonica. E ci mancherebbe altro, visto che, a ben vedere, una simile clausola è – a mio modesto avviso – una contraddizione in termini. Vediamo per quale ragione.
La SIAE, per espressa previsione di legge (art. 180 LDA) è monopolista nelle attività di intermediazione relative alle opere dell’ingegno tutelate dalla legge sul diritto d’autore.
Ora, i primi due commi del citato art. 180, nell’attribuire alla SIAE il potere di concedere licenze, affermano una cosa importante: gli autori ed editori che – iscrivendosi alla SIAE (giova ricordare che l’iscrizione non è obbligatoria) – hanno inteso demandare a tale ente la tutela e la gestione dei propri diritti, restano vincolati ai contratti stipulati dalla SIAE.
In altre parole, la situazione è analoga a quella di colui che conferisce una procura a taluno per il compimento di certe attività: allorché il procuratore stipula un contratto o assume in altro modo obbligazioni in nome e per conto del rappresentato, è quest’ultimo a rimanere giuridicamente vincolato.
Ebbene, sostanzialmente la SIAE ha – in ordine alla concessione di licenze d’uso – la rappresentanza ex lege dei propri iscritti.
Giova sottolineare – a questo punto – che l’attività della SIAE, oltre che dalla legge, è disciplinata dallo statuto e dal regolamento interno (quest’ultimo previsto dallo statuto). Il vecchio regolamento (approvato il 16 dicembre 1987 e, successivamente, più volte emendato), in ordine a riserve e limitazioni dei poteri di intermediazione della SIAE, diceva poco, anche se quel poco era già sufficiente a tutelare gli interessi di tutti. Gli autori che avessero voluto limitare i poteri di licenza (non in senso oggettivo, ma soggettivo, cioè indicando i soggetti cui sarebbe stato possibile licenziare l’uso dell’opera) della SIAE avrebbero dovuto dichiararlo al momento del deposito dell’opera; l’eventuale dichiarazione di limitazione che fosse intervenuta successivamente non avrebbe inciso in alcun modo sui contratti di licenza già stipulati (cfr., ad esempio, gli artt. 39 e 61 del vecchio regolamento). Il nuovo regolamento (approvato il 13 giugno 2007), in aggiunta alle limitazioni soggettive (rimaste in essere per le opere drammatiche e radiotelevisive, nonché per le opere liriche: cfr. artt. 81 e 97), consente agli iscritti alla SIAE di richiedere in qualsiasi momento la limitazione oggettiva di uno o più poteri di intermediazione di quest’ultima (il divieto, cioè, al rilascio di licenze per un certo tipo di utilizzo dell’opera: ad esempio la diffusione online). Tale limitazione ha effetto dall’anno successivo a quello in cui è stata formulata la richiesta dell’avente diritto (artt. 10 e 11 del nuovo regolamento).
La nuova regolamentazione suscita alcuni dubbi. Intanto sulla legittimità dell’introduzione di limitazioni oggettive – su richiesta dei singoli iscritti – ai poteri che alla SIAE derivano dalla legge. La SIAE è, indubbiamente, preposta alla tutela degli interessi dei titolari dei diritti (patrimoniali) d’autore, ma – altrettanto indubbiamente – la sua rilevanza non solo privata (giacché si tratta di un ente pubblico a base associativa: cfr. art. 1 dello statuto SIAE) le deriva dalla funzione di semplificazione dei rapporti tra titolari dei diritti e (aspiranti) utilizzatori delle opere. Tale semplificazione si esplica allorché taluno voglia utilizzare una o più opere protette. Invece di rivolgersi ad ogni singolo autore (o coautore) – con tutte le difficoltà che anche solo la individuazione dei titolari dei diritti comporta – è sufficiente rivolgersi alla SIAE, stipulare un contratto di licenza d’uso e pagare il corrispettivo. Sarà poi la SIAE a vedersela con i singoli titolari dei diritti.
Gli artt. 10 e 11 del nuovo regolamento, tradiscono in pieno tali funzioni: la tutela degli interessi dei titolari dei diritti d’autore si fa massima (consentendo loro di essere iscritti alla SIAE, ma di sottrarre alla stessa i poteri di intermediazione e licenza per una o più utilizzazioni determinate), mentre la tutela degli interessi degli utilizzatori si fa minima (non garantendogli espressamente, in caso di richiesta successiva di limitazione da parte dei titolari dei diritti d’autore, la salvezza dei diritti di utilizzazione acquisiti in forza di un contratto di licenza anteriore).
Sul contratto di licenza per la diffusione web-radiofonica
In questa prospettiva occorre esaminare il contratto di licenza per l’utilizzazione delle opere musicali in modalità webradio. In particolare, l’art. 6 della licenza in esame introduce una (auto)limitazione dei poteri SIAE ed attribuisce un potere, non altrimenti previsto, agli aventi diritto sulle opere protette. Infatti l’art. 6 – contrariamente a quanto previsto dagli artt. 10 e 11 del nuovo regolamento – non dispone che le limitazioni avranno effetto dall’anno successivo alla loro comunicazione, ma impone la cessazione immediata dell’uso delle opere dal momento dell’invio, all’indirizzo del licenziatario, di una e-mail di preavviso. Ma l’art. 6 introduce anche una potenziale antinomia sistematica, visto che:
a) la licenza d’uso è un contratto e, in quanto tale, costituisce una vincolante fonte di obbligazioni per le parti (art. 1173 c.c.);
b) una delle funzioni della SIAE, come si è visto, è quella di semplificare l’iter di ottenimento delle licenze da parte di terzi, senza la necessità di interpellare, uno ad uno, i singoli titolari dei diritti sulle opere e per questo la SIAE ha, per legge, il potere di stipulare contratti di licenza vincolando i suoi iscritti;
c)l’ottenimento della licenza dalla SIAE mette (anzi: dovrebbe mettere) al riparo il licenziatario da ogni possibile futura sorpresa, garantendogli il pacifico uso di ciò che ha costituito oggetto della licenza;
d) la licenza, detto altrimenti, garantisce alcuni diritti al licenziatario, il quale – dal momento della stipula – avrà certezza di quali siano le proprie facoltà e, soprattutto, su cosa potrà esercitarle;
e) l’introduzione delle limitazioni e delle riserve di cui agli artt. 10 e 11 del nuovo regolamento e 6 del contratto di licenza per webradio è, al contempo, contraria allo spirito dell’art. 180 (in quanto – di fatto – spoglia la SIAE dal potere di gestione delle opere attribuitogli dalla legge) ed è contrario allo spirito della disciplina dei contratti, in quanto il contratto, di fatto, obbliga il solo licenziatario (a pagare il prezzo di licenza), non anche i licenzianti (i quali possono sempre – anche dopo la stipula del contratto – tirarsi indietro).
Anzi, a voler affondare il “ferro” nella piaga (magari esagerando anche un po’, ma nemmeno tantissimo), si deve osservare che il contratto di licenza sembra a rischio di invalidità (sub specie di nullità), per un vizio dell’oggetto. Invero, paradossalmente, gli artt. 10 e 11 del regolamento e 6 del contratto consentirebbero a tutti gli autori iscritti alla SIAE di formulare – dopo la stipula dei contratti di licenza – le previste riserve, sottraendo al licenziatario tutte le opere per le quali il contratto è stato stipulato. Insomma, in tal modo, verrebbe a mancare l’intero oggetto della licenza e la stessa, in virtù di quanto previsto dall’art. 1346 c.c., sarebbe nulla.
Chiunque, pur prescindendo da valutazioni strettamente giuridiche, è in grado di rilevare la stranezza di un contratto che, di fatto, non vincola una delle parti – la quale non si è riservata la facoltà di recedere (il che sarebbe del tutto plausibile), ma quella di sottrarre al contratto il suo oggetto -, facendo restare vincolata l’altra parte. Pare chiaro, infatti, che – salva, forse, la facoltà di recedere ex art. 1373, comma 2, c.c. (sì, perché nel contratto di licenza non è disciplinato il diritto di recesso del licenziatario, il quale ha solo doveri, ma nessun diritto!) – il licenziatario dovrà comunque pagare il corrispettivo alla SIAE.
In alternativa alla prospettiva di una nullità dell’intero contratto (prospettiva che non mi pare affatto auspicabile), occorre tentare di conservare efficacia al contratto di licenza, onde evitare che il licenziatario risulti aver utilizzato delle opere…senza licenza. Con questo spirito si deve in ogni caso riflettere sulla validità della singola clausola n. 6: la sua eliminazione, infatti, consentirebbe di salvare il contratto di licenza.
Ciò detto, resta da riflettere sugli aspetti, per così dire, macroeconomici di simili modelli contrattuali, visto che – in realtà – la webradio è indubbiamente una forma relativamente nuova di broadcasting e che tale attività (quando sia esercitata con criteri di economicità e per fini di profitto) è qualificabile senza dubbio come attività di impresa.
Ebbene, modelli contrattuali sul genere di quello testè esaminato non aiutano il diffondersi delle webradio, lasciate nell’incertezza sulla portata oggettiva della licenza d’uso acquisita. Immaginiamo cosa accadrebbe se un contratto di franchising non determinasse l’oggetto dell’attività del concessionario o attribuisse al concedente il diritto di mantenere vincolata la controparte senza alcun onere per sé: nessuno stipulerebbe tali contratti e le attività in franchising scomparirebbero in un batter d’occhio.
Indubbiamente certi modelli contrattuali non si rivelano utili ad un pieno ed armonico sviluppo del mercato (inteso come luogo virtuale in cui competono, nell’offerta di beni e servizi, più soggetti in posizione di sostanziale parità).
Alzando per un momento gli occhi ad osservare il complessivo panorama, sembra che – e non è un fenomeno solo italiano – vi sia la ferma volontà di rallentare (per quanto possibile) il decollo di alcune funzionalità della Rete (laddove la rete, almeno fino ad ora, costituisce un mercato troppo vasto per essere controllato da pochi grandi operatori ed ancor più dove la rete non è più o non è ancora mercato). Il pretesto è costituito dal diritto d’autore, ma l’obiettivo è quello di favorire non gli autori (di cui non importa nulla a nessuno, a meno che non si siano rivelati galline dalle uova d’oro) ma di impedire il sorgere ed il consolidarsi di forme di business più efficienti e meno costose.
Il discorso torna – come un vecchio vinile rigato che fa “incantare” la puntina – sul ruolo pervasivo delle majors nella società dell’informazione e sulla loro pervasiva e strisciante capacità di condizionare le scelte politiche (a livello pubblico) e contrattuali (a livello privato), imponendo regole standard in grado di scontentare tutti, fuorché i loro azionisti di riferimento. E sarebbe opportuno aprire un tavolo di discussione su altri modelli contrattuali (non su quelli di licenza d’uso), relativi alla corporate governance e alle concentrazioni anticoncorrenziali di tali imprese, visto che:
a) da una parte – nella prospettiva classica – all’interesse dei manager (all’apprezzamento delle azioni, per poter lucrare sui compensi o, peggio, sulle stock options) e dei soci investitori (alla ripartizione degli utili) occorre contrapporre i cosiddetti “interessi ulteriori” e, in particolare, quello della collettività dei consumatori;
b) dall’altra – e alludo alle pratiche anticoncorrenziali – i monopoli (di fatto o di diritto) non sono quasi mai auspicabili (per ragioni di efficienza economica facilmente intuibili), a maggior ragione se il mercato di riferimento è l’intero Pianeta.
Le imprese che “maneggiano” prodotti coperti da diritto d’autore, infatti, rivestono un ruolo di una certa importanza nella “catena di montaggio” del bene immateriale “cultura” e nella crescita o nell’involuzione – o, se si preferisce, nel rattrappimento – spirituale e civile degli individui. Lasciare nelle mani di un gruppo ristretto di società globali (cioé, mondiali) le industrie della discografia, dell’editoria, del cinema e delle trasmissioni radiotelevisive può determinare danni irreparabili all’Uomo ed al suo sistema valoriale e culturale.
Alla scarsa sensibilità delle majors per gli “interessi ulteriori” di cui si è detto e per il pluralismo (e dunque la concorrenza) di mercato deve aggiungersi – tra i fattori di pericolo – l’elemento anticoncorrenziale per eccellenza: il monopolio d’autore. Sul tema si è già discusso, sempre sul blog di Chartitalia, un po’ di tempo fa, e non sto ora a ripetere tutto quanto si è detto.
Free Culture
Per chiudere, mi fa piacere riportare un breve passo – in cui il mio pensiero si identifica – tratto dall’opera del giurista americano Lawrence Lessig, Free culture (tr. it. Cultura libera, Apogeo, 2005):
“Una cultura libera non è priva di proprietà; non è una cultura in cui gli artisti non vengono ricompensati. Una cultura senza proprietà, in cui i creatori non ricevono un compenso, è anarchia, non libertà. E io non intendo promuovere l’anarchia.
Al contrario, la cultura libera che difendo (…) è in equilibrio tra anarchia e controllo. La cultura libera, al pari del libero mercato, è colma di proprietà. Trabocca di norme sulla proprietà e di contratti che vengono applicati dallo stato. Ma proprio come il libero mercato si corrompe se la proprietà diventa feudale, anche una cultura libera può essere danneggiata dall’estremismo nei diritti di proprietà che la definiscono.”
Gianluca Navarrini
Nota
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