Auspicato un intervento legislativo in materia di regolamentazione dei contenuti presenti sulla Rete.
Il prossimo martedì si svolgerà a Milano la prima udienza relativa al caso di cyberbullismo che ha fatto molto discutere nel 2006. Si ricorderà certamente la vicenda del ragazzo affetto da Sindrome di Down, protagonista di un video nel quale era stato ripreso da suoi coetanei mentre veniva da loro deriso e picchiato nell’istituto tecnico superiore di Torino che frequentava. Le immagini erano state caricate dai responsabili dell’accaduto sul sito di video sharing, Google Video, ed erano rimaste disponibili in Rete dall’8 settembre al 7 novembre del 2006, costituendo, tra l’altro, uno dei materiali più scaricati dagli internauti. Il fatto aveva spinto l’Associazione Vivi Down (da cui il nome che ha assunto il caso) a sporgere denuncia e, a conclusione delle indagini, il pm Francesco Cajani, lo scorso novembre, aveva notificato a quattro manager di Google (David Carl Drumond, George De Los Reyes, Peter Fleitcher e Arvind Desikan) il decreto di citazione in giudizio, con l’accusa di concorso in diffamazione e violazione della legge sulla privacy. Sulla vicenda dovrà quindi pronunciarci il tribunale milanese il prossimo 3 febbraio. Ciò su cui, in sostanza, si discute è la responsabilità di Google circa il contenuto denigratorio del video diffuso sulla Rete. E questo che (al di là di considerazioni di natura etica sull’atto riprovevole compiuto nei confronti del ragazzo diversamente abile) rende la vicenda particolarmente interessante con riguardo ai risvolti giuridici che la stessa potrà avere. Sul punto è intervenuto l’avvocato Marco Pancini, responsabile dei Rapporti istituzionali per la sede italiana di Google, secondo il quale è sbagliata “l’idea che il provider di servizi in Rete sia oggettivamente responsabile dei contenuti ospitati sulle proprie piattaforme”. E ciò sia per una ragione che definisce “tecnologica”, consistente nell’impossibilità, da parte del provider in parola, di verificare e controllare le molte ore di video quotidiane che ogni minuto vengono caricate sul proprio sito, sia per la stessa filosofia che sta alla base di Google Italia, che è quella di mettere a disposizione degli utenti gli strumenti che possano consentire loro di distribuire in Rete i loro contenuti. “Non potremmo mai arrogarci il diritto di scegliere cosa può andare bene e cosa no sulla Rete”, ha dichiarato Pancini, il quale ha anche precisato: “Con questo non vogliamo sfuggire alle nostre responsabilità, ma è importante capire che ci troviamo di fronte a una rivoluzione culturale e noi, come Google, siamo i pionieri di questa innovazione”. L’innovazione, dunque, secondo Pancini, si scontra oggi con la carenza, in Italia, di una adeguata normativa in materia. La convinzione secondo cui la legislazione vigente non sia al passo con l’evoluzione tecnologia è condivisa dall’avvocato dell’Associazione Vivi Down, Guido Camera, ma naturalmente per motivazioni opposte. Secondo Camera internet è un “sistema nuovissimo e dalle molte implicazioni sociali, che riteniamo fortemente migliorabile nelle molte zone d’ombra che ancora presenta”. L’obiettivo dell’Associazione, a detta dell’avvocato, non sarebbe quindi quello di censurare la libertà della Rete ma di colmare la lacuna legislativa che esiste nel nostro Paese con riguardo alla disciplina dei contenuti presenti sul web.“Potremmo anche arrivare, nel corso del dibattito, a un intervento del Parlamento per modificare o comunque migliorare le leggi italiane”, ha affermato Camera che, con riferimento specifico alla vicenda giudiziaria di cui si tratta, ha ribadito le responsabilità di Google Italia per concorso in diffamazione, violazione delle norme in materia di trattamento e protezione dei dati personali “con in più la responsabilità civile di non aver rimosso il video dal sito se non dopo l’intervento della polizia giudiziaria” (dichiarazioni tratte da Corriere.it). (D.A. per NL)