La novità che appare più eclatante nel mondo dei media italiano in questo inizio di 2011 è il diffondersi di una nuova offerta di servizi televisivi che fanno uso di internet per la loro diffusione.
Ha cominciato Sky con il suo accordo con Fastweb, ha continuato Mediaset con Premium Net TV. Sullo sfondo la notevole ma poco pubblicizzata offerta web-tv della RAI. Solo quest’ultima ha tutte le caratteristiche di un servizio internet-based, ovvero si configura come una vera e propria web-tv che si rivolge all’utente della rete ed è fruibile tramite personal computer o dispositivi simili. I prodotti dei broadcaster commerciali, invece, ed in specie quello di Mediaset, si pongono l’obiettivo di utilizzare la rete come un mezzo di trasmissione e/o come un semplice plug-in del servizio televisivo, di fatto minimizzandone le caratteristiche peculiari di interattività e di apertura in favore di una versione addomesticata e privatizzata, a misura di telecomando. Il menu di Premium Net TV non è che un’estensione delle opzioni messe a disposizione da un decoder o da un apparecchio televisivo, dove il termine “Net” richiama la presenza misteriosa di una rete che il premuroso provider provvede a selezionare e riprodurre nella tranquilla consuetudine del focolare elettronico tradizionale. Ovvio che in questo modo una gran parte di utenti non avvezzi all’uso di personal computer o altri terminali informatici viene messa in grado di accedere a servizi di cui altrimenti non sarebbe in grado di usufruire. Ma non si tratta certo di emancipazione; anzi, in un paese ancora in uno stato di pre-alfabetizzazione riguardo a internet e ai suoi fenomeni, così come molti sono convinti che Facebook “è” la rete, altri potrebbero convincersi che la stessa rete è, alla fine, come una grande pay-tv on demand. Non è certo questa l’internet che, almeno a parole, si vorrebbe diffusa ad ogni livello sociale, quella che dovrebbe portare informazione, cultura e opportunità di condivisione e partecipazione a tutti i cittadini. Eppure è questo il modello di rete che si avvia ad occupare spazi sempre maggiori, con fette di banda che andranno inevitabilmente ad essere riservate ai famelici servizi video, grazie agli accordi già in essere e che sicuramente verranno tra provider e over-the-top. Unico sviluppo prevedibile, in questi tempi di post-crisi, per gli investimenti nelle reti di nuova generazione, che invece di rappresentare un’opportunità di sviluppo per tutti rischiano di diventare il supporto della super-televisione o di un numero imprecisato di walled garden dove discreti padroni di casa si dedicheranno allo sfruttamento intensivo delle vite digitali a loro incautamente affidate. Non parliamo poi del numero sempre crescente di “scatolette” che il malcapitato utente di questi servizi è costretto a comprare: si vuole riprodurre anche su internet, ambiente aperto per sua natura, la scandalosa gestione degli standard della televisione digitale, dove il decoder unico, nonostante l’evidente fattibilità tecnica, rimane ancora nei sogni dei legislatori e soprattutto dei cittadini. Così ecco il proliferare di cubi, box, app e chi più ne ha più ne metta, ognuno dei quali dedicato a un solo servizio e blindato su tutto il resto, tanto facile da usare quanto limitato nel suo essere strumento di marketing atto a fidelizzare quanto più possibile l’utente. Modelli di business che finora nel broadcasting hanno pagato, complice anche l’assenza o l’indifferenza dei regolatori. Modelli che ora però potrebbero mettere a serio rischio la sopravvivenza di internet come l’abbiamo conosciuta finora: libera, aperta e interattiva, perciò anche pericolosa e, perché no, rivoluzionaria. (E.D. per NL)