"Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina".
"Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me. Sono un oggetto che viene trasportato. Ma sono libero. Per ché la vera libertà è quella che hai nella tua testa". Questo toccante grido di speranza e di dolore appare sul sito ufficiale di Roberto Saviano, come presentazione dell’evento andato in onda ieri sera su Current Tv: Saviano racconta Saviano, in esclusiva sul canale 130 del pacchetto Sky. La parabola di una vita, la metafora di una condizione reale ed inconcepibile, ingiusta ed inaccettabile. Un messaggio ad una generazione. Sì, perché Roberto Saviano oramai non è più solo un giornalista d’inchiesta, uno scrittore, ma è un vero e proprio movimento culturale. Un movimento di massa che accoglie in maniera più o meno partecipativa una massa indistinta e incazzata, una massa di persone a cui piace crede d’essere liberi o che liberi lo sono per davvero; una massa di giovani, bambini ed adulti, di poeti e fruttivendoli, di scrittori e spazzini, di napoletani, indiani e norvegesi. Roberto Saviano, infatti, non è più solo napoletano. Anzi, napoletano, suo malgrado, non lo può più essere, da quando le sue battaglie e il suo coraggio l’hanno condannato, in contumacia, a vivere in non-luoghi, a frequentare non-persone, a mangiare non-gelati. Lo racconta spesso, Roberto, che uno dei suoi desideri maggiori sarebbe quello di passeggiare sul lungomare di Napoli, mangiando un gelato, e gustandosi il sole, i colori e i rumori tipici di quei luoghi, che hanno caratterizzato la sua infanzia, la sua giovinezza, sino al 2006. Purtroppo, però, a quattro anni dall’arrivo sulla ribalta nazionale ed internazionale, è giunto ad una conclusione: "Col tempo ho capito, – dice amaramente – se hai successo non sei molto amato dal territorio da cui provieni, anzi, finisci per essere profondamente disprezzato. Per molti ho macchiato la mia terra, per altri mi sono arricchito dicendo cose che tutti sapevano, per altri sono solo un ciarlatano". Il potere della lotta, c’insegna Roberto, è la parola, la parola in libertà. Purtroppo, però, effettivamente, sempre più spesso si è sostenuta la tesi che il parlare al grande pubblico di tematiche delicate come quella della criminalità organizzata, serva a fare cattiva pubblicità alla nostra terra, piuttosto che a cercare soluzioni per curarla. Questa è anche l’assurda e per certi inquietante opinione espressa appena pochi giorni fa in un’agghiacciante conferenza stampa dal premier Berlusconi. Ed è, purtroppo, un’opinione condivisa da una fetta – vogliamo sperare, sempre, minoritaria – di opinione pubblica, supportata da qualche quotidiano se non di dubbia moralità, certamente di fragile deontologia. Al di là della pubblicità, dei soldi, delle opinioni contrastanti, un fatto è certo. Da quattro anni Roberto Saviano, che oggi ha appena trent’anni, ha chiuso in soffitta la sua vita precedente e normale per diventare una non-persona, una persona in semi-libertà, un latitante, proprio come quelli che attacca nei suoi scritti. Tutto cominciò il 23 settembre 2006, quando fu invitato alla "Manifestazione per la legalità", svoltasi, alla presenza d’autorità e istituzioni, a Casal di Principe, terra di uno dei clan più sanguinari ed economicamente più potenti del mondo della malavita organizzata, il clan dei Casalesi. Roberto, un ragazzetto di ventisei anni, salì sul palco ed iniziò a puntare l’indice, a fare nomi e cognomi di coloro che tutti conoscevano ma che nessuno si permetteva di nominare, di accusare. Probabilmente nella platea c’erano anche loro, i Francesco Schiavone, gli Antonio Iovine, i Michele Zagaria, o loro amici, familiari. Tant’è che da quel giorno Saviano non vive più. Gli sono stati affiancati dapprima due uomini di scorta poi, sull’onda del numero sempre crescente di minacce, del successo planetario di Gomorra e della sua popolarità improvvisa, le guardie sono diventate sette. Lo seguono giorno e notte, sono diventati i suoi angeli custodi, in una vita che assomiglia più ad un inferno che alla vita vera. "Io vivo ancora grazie ai miei lettori", dice. Già, perché, lontano dai canoni dell’eroe senza macchia e senza paura, Roberto, un ragazzo in carne ed ossa, non si vergogna di manifestare le sue ansie, le sue paura, la sua solitudine. Ha lasciato la sua famiglia, i suoi amici; sua madre, dice, quando lo vede ha paura, paura che possa succedergli qualcosa, paura che sia l’ultima volta. Roberto è una persona coraggiosa, ha avuto il coraggio di rinunciare alla vita e di diventare un simbolo di libertà. Non vuol diventare, però, un personaggio da libri di storia, uno di quelli morti ammazzati, idolatrati, eretti a simbolo, ma che alla fine hanno dovuto soccombere. Roberto vuole vivere e vuol continuare a vivere anche per ottenere degli obiettivi. Già, degli obiettivi reali, non per diventare l’ennesimo simbolo della battaglia persa contro le mafie. Dopo l’evento di ieri su Current, oggi Saviano era ospite a Ginevra, per l’apertura della Conferenza globale dei giornalisti d’inchiesta. Ovviamente i giornalisti presenti hanno tirato fuori lo scontro degli ultimi giorni tra lui ed il premier Berlusconi. Roberto ha detto che è stato "doloroso" ascoltare quanto detto dal Presidente del Consiglio. "Le parole del capo del Governo – ha commentato – hanno purtroppo isolato molte persone che in Italia per scrivere di mafia si espongono e rinunciano alla vita". "Sono convinto – ha continuato – che l’unico modo per fare onore al proprio Paese è raccontare con onore la verità". Già, perché chi racconta e combatte la criminalità organizzata, chi ne plasma ed esporta un’immagine negativa, non è e non potrà mai essere un’onta per il suo Paese. Un’onta, piuttosto, la costituisce chi diffonde l’opinione per cui chi, come Roberto, denuncia la camorra, dovrebbe tacere. (G.C. per NL)