Secondo la Corte d’Appello di Milano, sentenza 31 agosto 2009 n. 2156, sotto l’egida del diritto di critica rientra a pieno titolo anche quello di satira.
Nel caso esaminato dal giudice ad quem, si denunciava la pretesa diffamazione a mezzo stampa ai danni di un noto avvocato difensore di molti "eccellenti" politici nelle vicende giudiziarie relative all’inchiesta passata alla storia con il nome di "Tangentopoli". In seguito ad alcune pubblicazioni apparse su un quotidiano a diffusione nazionale – nelle quali si raccontavano con ironia talune vicende processuali legate a "Tangentopoli"- gli apprezzabili risultati processuali raggiunti dal professionista venivano collegati ad una sua presunta affinità professionale con i magistrati del pool "Mani Pulite". L’avvocato, in proposito, lamentava danni biologici e morali innanzi al Tribunale competente, vedendosi, però, respinte dal giudice di prime cure le istanze rivendicate. Dello stesso parere, nella sostanza, la sentenza d’appello, foriera di interessanti spunti di riflessione. Anzitutto, nella esaminanda pronuncia, si premette che i già noti principi informativi del diritto di cronaca – pertinenza, verità dei fatti narrati e continenza – devono rimanere sullo sfondo di qualsiasi valutazione che tenti di ricomporre una controversia afferente questa materia. Ovviamente, evidenzia la corte ambrosiana, la cronaca satirica necessita di un vaglio con maglie più larghe del comune: per sua stessa natura richiede l’uso di toni grotteschi e spregiudicati atti descrivere una vicenda o accentuare alcune curiose e dilettevoli caratteristiche di un certo personaggio pubblico. Per i giudici milanesi, la narrazione satirica ha trovato cittadinanza nello stile dissacrante con il quale il giornalista appellato ha scelto di raccontare le peripezie oggetto del procedimento per diffamazione. A tal proposito, si scrimina il reato di cui all’art. 595 c.p. argomentando che "fatti o comportamenti necessariamente frutto di una visione soggettiva, difficilmente riconducibili al criterio della necessità della verità del fatto in quanto esercizio del diritto di critica […], comportano una valutazione da parte del lettore e dell’interprete che può esprimersi in termini di condivisibilità o meno delle tesi affermate, non già sotto il profilo della verità delle medesime" (cfr. Corte Appello Milano, sent. n. 2156/2009). In questa considerazione, s’intravede senz’altro una versione del concetto di verità dei fatti narrati con baricentro spostato sulla verità "putativa", ovvero su quella non rinvenibile nei fatti oggettivamente riportati, bensì manipolati da deduzioni o pareri – perciò non giuridicamente censurabili – dell’autore.
Nell’ambito dell’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello di Milano, però, si pone l’accento su un limite con il quale deve fare i conti anche il diritto di critica: laddove sia intervenuta una lettura giurisprudenziale di una certa vicenda, la successiva narrazione deve fare i conti con l’imprescindibile verità processuale. Una disinvolta lettura di fatti accertati giudizialmente, pertanto, non potrebbe più avvalersi della protezione fornita dall’art. 21 della Costituzione. Tale assunto, ceteris paribus, vale anche per la cronaca satirica, configurata come "diritto di critica esercitato in forma sarcastica ed ironica" (cfr. Corte Appello Milano, cit.). Il contegno necessariamente sprezzante di questo metodo di comunicazione non arriverà mai a rispettare appieno i rigorosi parametri espressivi della convenzionale scrittura giornalistica improntati a criteri di stretta razionalità ed adeguatezza. Ciononostante, non risulta tollerabile uno sconfinamento spinto verso la formulazione di offese gratuite o narrazioni denigratorie della dignità e della reputazione di un individuo. Tirando le somme, ciò che ci pare contraddistingua il pronunciamento oggetto di queste brevi note, è una lettura particolarmente audace di un aspetto della causa di giustificazione fornita dal diritto di critica. In proposito, il giudice del gravame, nel confermare sostanzialmente la sentenza di primo grado, offre una particolare configurazione della causa esimente: nella valutazione di merito sulla portata lesiva di una pubblicazione, occorre tener conto anche della fonte nella quale la notizia o il racconto assunti come diffamatori si ritrovano. A tal proposito, appartenendo l’appellato giornalista ad una testata notoriamente schierata, si giunge a degradare l’apparente verità narrata alla stregua di una pubblicazione di nicchia, rivolta ad un pubblico "consumatore della notizia" anch’esso ideologicamente schierato. Tali motivi si ripercuoterebbero sulla pubblica fede da conferire alla narrazione che risentirebbe della manifesta carenza di oggettività. Il requisito della continenza e della verità sembrerebbero, anche per questo, salvi. Nel caso in cui il soccombente appellante voglia portare dinanzi ai giudici di legittimità il punto di vista della Corte d’Appello di Milano, sarebbe di estremo interesse giuridico apprendere il punto di vista del Supremo Collegio. Per il momento, ci pare che il principio di uguaglianza (inteso alla stregua di un medesimo trattamento tra cronisti apertamente schierati e non) ne esca alquanto mortificato. (Stefano Cionini per NL)