Rosa, Olindo e Azouz. Difficile ormai viverli come persone, uomini al culmine della disperazione: gli uni per aver massacrato ferocemente inermi, l’altro per essere stato privato degli affetti più cari. Eppure, per essere considerati ancora tali, cioè uomini, basterebbe loro trattenere il respiro, sospendere la recita, uscire di scena e la loro vita ritroverebbe la tragicità perduta. Impossibile.
Rosa, Olindo e Azouz sono personaggi, vittime forse dei loro eccessi (specie i due assassini della porta accanto) ma anche delle nostre dismisure. Ormai non c’è più distinzione fra realtà e rappresentazione, fra processo «vero» e processo istruito nei tribunali di «Porta a porta» o di «Matrix» o di qualche altra località televisiva. Gli avvocati lo sanno e le strategie difensive sono pensate anche in funzione della risonanza mediatica: al percorso investigativo si affianca un subdolo percorso narrativo. Rosa, Olindo e Azouz.
Olindo Romano (Emmevi)
La signora Bazzi è assente, come se un consulente di immagine le avesse consigliato di smaterializzarsi. La sua è la posizione più delicata. Plastici, docu-fiction, inchieste, enigmi, ricostruzioni, ore e ore di tv la inchiodano alla sua ferocia: avrebbe sgozzato il piccolo Youssef «perché con il suo piagnisteo mi faceva venire il mal di testa». I suoi avvocati ritrattano. Il signor Romano, che abbiamo imparato a conoscere (a conoscere dal video) come un omone succubo della moglie, è in tribunale e davanti al giudicesi dichiara innocente. Mentono? Recitano? Dicono la verità? La nostra indole e i nostri pregiudizi ci facilitano una scelta che scioglie e semplifica il problema senza risolverlo. Ma c’è qualcosa in più: il delitto di Erba, come altri delitti famosi, si porta dietro un affaticamento spettacolare, un andirivieni dalla realtà al reality, e viceversa, fatto di «vite in diretta», di cronaca nera trasformata in fiction, di racconti artefatti su realtà spaventosamente autentiche.
Così il signor Azouz si presenta tra una selva di telecamere, accompagnato da un proprietario di discoteca, gli occhi coperti da fascianti occhiali griffati. E mentre invoca la pena di morte per gli assassini dei suoi cari un cronista ci ricorda dal pergamo di un tg che Lele Mora e Fabrizio Corona lo vogliono far entrare nel magico mondo dello spettacolo.
Ma è già spettacolo per Rosa, Olindo e Azouz. Siccome la morte, per essere tale, ha bisogno ormai di tutto il suo apparato rappresentativo (scena del crimine, sangue, cadavere ma pure criminologo, psicologo, esperta di costume… una morte completa di istruzioni per l’uso) anche la realtà quotidiana si adegua, per esserne all’altezza. Per essere cuore di tenebra come certe volte sa essere cuore di tenebra la tv; per essere perversa come certe volte noi sappiamo essere perversi davanti alla tv.
«Sangue e crudeltà per un pubblico di basso livello intellettuale fingendo che sia di alto livello» ha tuonato ieri sera Umberto Eco dal Tg1. La morte vista da vicino, secondo l’etica della tv, è portata a spiegarsi, a rappresentarsi, a entrare in scena. Così, solo nel ripudio della vita, riusciamo a sopportare i mali della vita.
Aldo Grasso