Roma – Dopo 4 anni di accordi extra-giudiziari e 20mila cause legali mai approdate al dibattimento, RIAA, la celebre organizzazione delle grandi sorelle del disco, avrà l’onere della prova in un processo “vero e proprio”. Il caso Virgin v. Thomas vede di fronte il gotha della musica commerciale – Sony, Virgin, Warner e compagni – e la 30enne Jannie Thomas, originaria di Brainerd, Minnesota, in quello che potrebbe rappresentare un precedente legale fondamentale per l’intera crociata anti-P2P fin qui portata avanti dall’industria dell’intrattenimento.
Il copione è ormai un classico: i discografici accusano la donna di aver messo in condivisione sulla oramai decaduta rete di scambio Kazaa – che distribuisce soltanto un po’ di spyware e file fasulli ma, evidentemente, ancora continua a provocare grattacapi ai netizen – 1.702 brani musicali nel corso del 2005, senza alcuna autorizzazione.
Per questo grave crimine RIAA chiede il pagamento della modica cifra di 3,9 milioni di dollari in danni, e in più le spese legali degli avvocati assoldati dall’industria. In tutta risposta, l’avvocato di Jannie Thomas ripete che la sua cliente si professa assolutamente innocente dei fatti ascritteli, e che non ha alcuna intenzione di venire a patti con i discografici ma vuole anzi andare fino in fondo.
Il nome Thomas è saltato fuori da una ingiunzione del querelante nei confronti del provider Charter Communications, obbligato a rivelare chi vi fosse dietro l’indirizzo IP 24.179.199.117 al quale RIAA attribuisce le operazioni di condivisione illegale.
La vicenda andrà sicuramente tenuta sotto stretta osservazione: non solo l’occasione sarà propizia per entrare nel dettaglio delle modalità investigative usate dalle major per rastrellare gli indirizzi Internet contro cui poi scagliarsi, ma c’è anche la possibilità che una eventuale decisione contraria al teorema-RIAA possa segnare un colpo durissimo alla strategia delle denunce a pioggia contro gli utenti del P2P.
Alfonso Maruccia