Sembrava dover essere la prima vittima dell’aria di repulisti che tira in casa Rai. La prima vittima immolata all’altare della libertà di fare informazione libera. In realtà, non sarebbe stata la prima, e chi ha una memoria storica lunga sei-sette anni lo sa bene. Ma questa è un’altra storia.
Fortunatamente, però, pare che Milena Gabanelli, conduttrice di Report, uno dei programmi d’inchiesta più fortunati e di qualità degli ultimi lustri in Rai, resterà salda al suo posto, grazie, pare, all’intercessione della direzione di Raitre per persuadere l’azienda a ritrattare i propri propositi di ritirare la copertura legale al suo programma, tagliandole, in sostanza, le gambe. Milena Gabanelli e Report, difatti, hanno qualcosa come una trentina di cause che gravano sulla loro testa, secondo quanto dice l’interessata, in una lettera aperta, pubblicata il 29 settembre dal Corriere della Sera. La Gabanelli ha voluto sfogarsi, spiegare, ritagliarsi uno spazio anche lei in questa querelle che la vedeva protagonista ma della quale avevano parlato solo politici, dirigenti e, più o meno improvvisati, commentatori. Lo ha fatto nello stile sobrio, neutrale e, soprattutto, educato che la contraddistingue. Perché il giornalismo d’inchiesta che fa il suo programma è un giornalismo invasivo, aggressivo, scomodo. Ma Milena Gabanelli, sul video come nella vita è una persona prima di tutto pacata, di basso profilo, lontana anni luce dalle logiche di parte che spesso ne infamano il lavoro. “Le cause pendenti sulla mia testa sono una trentina – dice candidamente – è facile capire che alla fine una pressione del genere può essere ben più potente di quella dei politici, e diventare fisicamente insostenibile”. La sua lettera al Corsera inizia così: “La pressione politica (che in Italia è particolarmente anomala) sul condizionamento della libertà d’informazione, forse non è l’aspetto più importante, anche se ciclicamente esce quando coinvolge personaggi noti. Per questo facciamo grandi battaglie di principio e ignoriamo gli aspetti pratici. Premesso che chiunque si senta diffamato ha il diritto di querelare, che chi non fa bene il proprio mestiere deve pagare, parliamo allora di chi lavora con coscienza. Alla sottoscritta era stata manifestata l’intenzione di togliere la tutela legale. La direzione della terza rete ha fatto una battaglia affinché questa intenzione rientrasse, motivata dal dovere del servizio pubblico di esercitare il giornalismo d’inchiesta assumendosene rischi e responsabilità. Nell’incertezza sul come sarebbe andata a finire ho cercato un’assicurazione che coprisse le spese legali e l’eventuale danno in caso di soccombenza dovuta a fatti non dolosi”. In Italia, però, la conduttrice non è riuscita a trovare nessuna compagnia che fosse in grado di stipulare una polizza del genere, e perciò si è dovuta rivolgere al mercato straniero, dove vige un diverso modo di intendere il diritto. “Bene, dopo aver compilato un questionario con l’elenco del numero di cause,- continua la conduttrice – l’ammontare dei danni richiesti e l’esito delle sentenze, una compagnia americana e una inglese, tenendo conto del comportamento giudicato fino a questo momento virtuoso, si sono dichiarate disponibili ad assicurare l’eventuale danno, ma non le spese legali. Sembra assurdo, ma il danno è un rischio che si può correre, mentre le spese legali in Italia sono una certezza: le cause possono durare fino a 10 anni e chiunque, impunemente, ti può trascinare in tribunale a prescindere dalla reale esistenza del fatto diffamatorio”. E ancora: “A chi ha il portafogli gonfio conviene chiedere risarcimenti miliardari in sede civile, perché tutto quello che rischia è il pagamento delle spese dell’avvocato. L’editore invece deve accantonare nel fondo rischi una percentuale dei danni richiesti per tutta la durata del procedimento e anticipare le spese ad una montagna di avvocati. Solo un editore molto solido può permettersi di resistere. Quattro anni fa mi sono stati chiesti 130 milioni di euro di risarcimento per un fatto inesistente, e la sentenza è ancora di là da venire. Se alle mie spalle invece della Rai ci fosse stata un’emittente più piccola avrebbe dovuto dichiarare lo stato di crisi. Visto che ad oggi le cause pendenti sulla mia testa sono una trentina, è facile capire che alla fine una pressione del genere può essere ben più potente di quella dei politici, e diventare fisicamente insostenibile. Questo avviene perché non esiste uno strumento di tutela. L’art. 96 del codice di procedura civile punisce l’autore delle lite temeraria, ma in che modo? Con una sanzione blanda, quasi mai applicata, che si fonda su una valutazione tecnica: paghi questa multa perché hai disturbato il giudice per un fatto inesistente. Nel diritto anglosassone invece la valutazione è sociale, e il giudice ha il potere di condannare al pagamento di danni puntivi: chiedi 10 milioni di risarcimento per niente? Rischi di doverne pagare 20”. Per finire con queste parole: “Ecco, copiamo tante cose dall’America, potremmo importare questa norma. Sarebbe il primo passo verso una libertà tutelata prima di tutto dal diritto. Al tiranno di turno puoi rispondere con uno strumento politico, quale la protesta, la manifestazione, ma se sei seppellito dalle cause, anche se infondate, alla fine soccombi”. Si fa un gran parlare, in questi giorni, delle persecuzioni politiche nei confronti di questo o quel programma. Un parlare legittimo, che mette in mostra, ancora una volta, per l’ennesima volta, lo stato di malattia cronica di cui soffre il nostro paese nei rapporti tra politica e informazione. Si parla di Santoro, del contratto di Travaglio, delle istruttorie, degli sketch dalla Dandini, dei continui tentativi di screditare, pur senza punire, chi fa certo tipo d’informazione invisa al potere in Italia. Ma a volte si trascura, come diceva la Gabanelli, la natura “pratica”. Per mettere a tacere l’informazione basta che qualcuno con un “portafoglio gonfio” non gradisca certa informazione e intenti cause basate sul nulla per far crollare il castello. In questo caso il problema trascende dalle mere, seppur spocchiose, insopportabili, pressioni politiche. Qui siamo nel campo del diritto. E le riflessioni si sprecherebbero. (G.M. per NL)