Roma – Le major vogliono arraffare quanto più denaro è possibile dal “nuovo” business del broadcasting musicale, ma gli scarsi profitti e le loro richieste stanno spingendo sull’orlo del baratro piccoli e grandi player di settore, complice una recessione economica che certo non aiuta. Anche se major e radioweb si accorderanno davvero, come sembrano prossimi, per una riduzione delle royalty sulla musica trasmessa, il destino di Pandora e delle altre emittenti non è radioso.
Il settore della musica in formato digitale è in pieno fermento da quando la Copyright Royalty Board statunitense ha deciso, nel marzo dell’anno scorso, di aumentare progressivamente i diritti da corrispondere per la diffusione autorizzata dei contenuti protetti in rete. Persino Apple, che con il suo iTunes rappresenta l’unico vero caso di successo del digital delivery musicale, ha minacciato di chiudere i battenti – ed eliminare una fonte di ricavi estremamente importante per talune etichette – se gestire il business dovesse divenire meno conveniente.
Secondo le anticipazioni del New York Times si sarebbe infine fatta strada una qualche ragionevolezza sulle royalty, e un accordo dovrebbe essere firmato prima del febbraio 2009, termine oltre la quale i costi di webcasting diventerebbero insopportabili per le piccole e le grandi realtà di settore.
Il problema, a questo punto, è che anche con royalty inferiori è dura, durissima incamerare sufficienti ricavi per pagare le spese. “La maggior parte degli operatori non ha sufficiente audience per generare il tipo di guadagni che servirebbe loro per coprire le spese” avverte Dave Van Dyke, presidente della società Bridge Ratings, specializzata nelle analisi del settore radiofonico.
Il modello di business delle radio online così com’è attualmente, “assolutamente insostenibile” come dice il founder di Pandora Tim Westergren, prevede di pagare i diritti per ogni singola canzone trasmessa in streaming, ed è un pianeta alieno in confronto a quello dei broadcaster satellitari a cui è richiesto “solo” di pagare il 6% dei propri ricavi senza star lì a contare ogni brano, e soprattutto rispetto alle radio tradizionali via etere, a cui viene concesso il solo diritto-dovere di “fare pubblicità” ai contenuti musicali.
Le soluzioni adottate sino a ora per aumentare i ricavi si sono rivelate praticamente inutili per l’intero settore: l’advertising visualizzato nel browser (come quello di Pandora) conta zero per gli utenti, abituati a minimizzare la finestra o a passare a una scheda di navigazione differente una volta stabilita la connessione, e chi ha provato a infilare pubblicità nelle trasmissioni stesse ha ricevuto solo lamentele.
Qualcuno prova a chiedere direttamente agli utenti di essere supportato economicamente: SomaFM, una web radio che trasmette da San Francisco seguita da 450mila ascoltatori, guadagna molto più dalle donazioni dei fan piuttosto che infilando advertising nelle trasmissioni dei suoi 14 canali musicali.
L’insostenibilità del sistema è ancora maggiore per i pesi massimi del web: società come Yahoo! e AOL si trovano nella situazione di dover desiderare un numero di ascoltatori non eccessivo, perché all’aumentare dei suddetti aumentano a dismisura anche i diritti da corrispondere alle larghe fauci delle major e anche in questo caso l’advertising si dimostra un canale di guadagno insufficiente.
Se non cambia completamente l’atteggiamento dell’industria dei contenuti, avvertono gli analisti, a perderci saranno solo e soltanto loro: chiusa Pandora e le altre, avvertono da Benchmark Capital, i 54 milioni di ascoltatori delle webradio “continueranno ad ascoltare musica gratis”, limitandosi “ad andare dove le major non vengono pagate”. La scelta, in quest’ultimo caso, è sterminata.
Alfonso Maruccia