L’allarmistico Rapporto Miller sulla possibile prossima estinzione della radio (nel suo modello classico, via etere) negli Stati Uniti, non convince l’associazione nazionale dei broadcaster americani (NAB), che – per voce del vice presidente esecutivo Dennis Wharton – sconfessa punto per punto le conclusioni del prof. Larry Miller, direttore dello Steinhardt Music Business Program alla New York University,.
La distanza tra le analisi è abissale fin dai dati su cui si fondano: la fonte di dati più autorevole nel settore, Nielsen, è stata infatti messa fortemente in discussione da Miller, ma l’istituto stesso si è difeso assicurando che le proprie rilevazioni sono “quanto di meglio disponibile sul mercato di riferimento per la compravendita di spazi pubblicitari” e “la NAB si affida senza incertezze proprio ai dati della società di ricerca di mercato newyorkese”.
“Secondo Nielsen – spiega Wharton – un sempre maggior numero di Millennials ascolta radio locali su piattaforme digitali. Ogni settimana, 265 milioni di americani si sintonizzano alle radio della propria città per ascoltare le canzoni preferite, scoprire nuovi artisti e seguire quelli più famosi, la cui carriera deve molto alle radio locali”. Le radio, specialmente quelle locali, manterrebbero tutt’oggi un ruolo primario nel “fornire agli ascoltatori notizie rilevanti, avvisi per la comunità e informazioni sulle emergenze meteo, indipendentemente da dove si trovano e se siano offline o online, tramite dispositivi mobile o in automobili integranti tecnologie che consentono la connessione. Non si sbaglia – conclude Wharton – a pensare che la radio resterà un medium di intrattenimento solido ancora per decenni”.
Il vice presidente della NBA contesta in diversi punti il report di Miller, a cominciare dall’affermazione secondo la quale la Generazione Z (cioè i nati tra il 1995 e il 2010, che entro il 2020 costituiranno il 40% dei consumatori statunitensi) sarebbero piuttosto tiepidi nei confronti dei media tradizionali, radio compresa, essendo cresciuti in un ambiente di servizi digitali on-demand.
Un articolo di Inside Radio, accreditato periodico di settore, riporta infatti che “secondo un nuovo report di iHeartRadio [piattaforma radio online di iHeart Communications, ndr], la radio gode di grande popolarità tra gli adolescenti che per l’81% la considera come parte della propria vita. In un’ottica interessante per i brand, la radio raggiunge 9 adolescenti su 10 ed è utilizzata per fare nuove scoperte: tra gli individui della c.d. Generazione Zeta, tre quarti affermano di ascoltare la radio per trovare nuova musica, mentre i due terzi per scoprire prodotti, ed essere informati su film in uscita ed eventi in programma”.
Il Rapporto Miller prosegue affermando che la radio starebbe perdendo del tutto (e velocemente) il ruolo di strumento di ricerca e scoperta di musica presso le generazioni più giovani; NAB contesta questo punto di vista con i dati Nielsen 2015, secondo cui la radio via etere AM/FM e satellitare sarebbe ancora lo strumento preferito per scoprire nuova musica per il 59% dei Millennials, che lo ascolterebbero anche per 10 ore settimanali. In sostanza, l’utilizzo di servizi di streaming si affianca e non sostituisce la sintonizzazione radio per l’ascolto di musica.
Neppure la previsione del crollo del monopolio della radio nell’ascolto in automobile (ci si aspetta che, entro il 2020, il 75% delle auto USA sarà connessa ad internet) sembra preoccupare Dannis Wharton: i broadcaster associati sono consapevoli che ci saranno cambiamenti nel mercato della “Radio in-car”, ma anche che la radio rimane competitiva (come dimostrerebbe il contraccolpo subito dall’industria delle automobili elettriche al momento della rimozione dei ricevitori AM per problemi di interferenza).
Secondo Miller, che si rifà allo Standard Media Index’s Q2 2017 report, negli anni i ricavi pubblicitari della radio sono calati del 4%, mentre il settore digital e mobile è cresciuto dell’11% e ciò dimostrerebbe che anche in ambito locale l’advertising sta abbandonando il mezzo tradizionale. Wharton osserva, però, che i ricavi della radio hanno un andamento ciclico e, soprattutto, variano molto da mercato a mercato. Le analisi Nielsen mostrano come le radio offrano il maggior ritorno sugli investimenti degli inserzionisti perché rappresentano un mezzo sicuro ed efficace per veicolare il messaggio, senza il rischio che l’inserzione finisca su siti dal contenuto discutibile o sia posizionata in modo da non catturare affatto l’attenzione del consumatore.
L’ultima considerazione di Miller avversata dalla NAB è quella per cui l’approvazione del Local Radio Freedom Act (LRFA) sarebbe la fine dell’idillio tra broadcasters e case disografiche: per effetto della nuova legge le radio, a differenza dei servizi on demand, non pagano le c.d. performance royalty agli artisti e ai titolari dei diritti; conseguentemente, il rapporto tra radio e case discografiche si starebbe incrinando perché queste ultime starebbero spostando la propria attenzione alle piattaforme digitali (che invece pagano le royalties) come mezzo per lanciare nuovi artisti, garantendosi un ritorno economico.
Sul punto, Dennis Wharton si limita ad osservare che l’approvazione del LRFA è proprio sintomo della relazione stretta tra radio locali e industria musicale, che beneficiano reciprocamente del rapporto e quindi il pagamento delle performance royalty sarebbe superfluo: “La radio – conclude Wharton – continua a svolgere un ruolo importante per l’industria musicale, aiutando i nuovi artisti ad emergere e quelli già emersi a rimanere in luce. Ormai non si contano i numerosi artisti ed etichette discografiche che lodano la radio per il suo ruolo nel portare al pubblico nuova musica, guidare il mercato degli album e del merchandising e riempire stadi, piazze e palazzetti in occasione dei concerti”. (V.D. per NL)