Nel Regno Unito nel secondo trimestre dell’anno gli introiti per il mercato radiofonico sono cresciuti dell’11% rispetto al medesimo periodo del 2016.
Le previsioni per la fine del 2017 sono piuttosto rosee e prevedono un incremento annuale del 4% pari a circa 875 milioni di dollari. RAJAR, l’istituto che si occupa di curare le indagini d’ascolto in UK dal 1992, ha sottolineato come l’audience cumulativa sia in crescita ed abbia rivalutato alcuni brand.
Secondo il rilevatore, sui risultati positivi avrebbe influito molto l’audio digitale (e, curiosamente, soprattutto il podcasting, dato da molti per poco sfruttato dall’utente), che, oltre a stimolare la fruizione del medium (in UK l’hybrid radio è già realtà da tempo) ha permesso di aumentare notevolmente la raccolta pubblicitaria.
Rilevante, a riguardo, la circostanza che questo la radio, a differenza di altri mezzi, non soffre particolarmente l’avvento degli ad-blocker che filtrando l’advertising sul web, sta mettendo a rischio molte pianificazioni che inizialmente avevano insidiato il mercato radiofonico.
Va pur detto che in Gran Bretagna, così come accade in Australia con il CRA, esiste un soggetto portatore di interessi diffusi, il Radiocentre, che si prodiga per lo sviluppo del settore: famose sono le sue battaglie per la deregolamentazione dei messaggi pubblicitari e della titolarità delle stazioni locali, ma anche per lo sviluppo tecnologico della radio.
Ma a contribuire alla crescita è anche Radioplayer – la partnership senza fini di lucro tra la BBC e le radio commerciali nata col fine di favorire la semplicità di utilizzo del medium sulla multipiattaforma (FM, DAB+, IP, ma anche tra gli stessi device IP, come pc, smartphone, tablet, smart tv e, soprattutto, nella prospettiva delle imminenti connected car) – che ha fatto un ottimo lavoro dal punto di vista tecnico assicurando a tutte le emittenti made in UK un posto sul dashboard della auto, sulle soluzioni come Amazon Echo, sui ricevitori ibridi (FM, DAB+, IP) e sulla tv (DTT e smart), anche se la sua influenza non pare proprio aver avuto lo sviluppo europeo che si prefissava.
Sta di fatto che, a differenza di quanto succede da noi (ma anche negli Stati Uniti), dove manca una stretta collaborazione tra editori, rilevatori, centri media e istituzioni governative, in terra britannica l’industria del medium opera in maniera coerente e compatta.
Il direttore del New York University’s Steinhardt Music Business Program solo ad agosto aveva dichiarato che in circa dieci anni le radio tradizionali sarebbero state surclassate dalla crescita dei servizi di streaming.
Sennonché, il mese successivo, l’International Federation of the Phonographic Industry di Londra ha contrastato tale tesi pubblicando una ricerca secondo la quale il 70% della totalità di ascoltatori (comprese quindi IP radio, podcasting e prodotti radiofonici collaterali domiciliati sul web) fruiscono abitualmente delle stazioni radio.
A rassicurare tutti ci ha pensato Mark Barber, Planning Director di Radiocentre, che in risposta alle allarmistiche previsioni sul futuro (alimentate dallo studio TNS pagato da Spotify, che ha collocato “Spotify Free” al secondo posto tra le stazioni radio inglesi) ha sottolineato come la radio tradizionale raggiunga ancora il 90% della popolazione e possa coesistere e dare battaglia ai servizi musicali digitali, soprattutto se riuscirà a mantenere il dominio della fruizione sulle auto in vista dell’era interconnessa. (M.R. per NL)