L’assemblea di Confindustria Radio Televisioni (CRTV), organizzata pochi giorni fa al Centro Congressi di Roma, non ha avuto un grande seguito: aula mezza vuota (anche a causa dello sciopero dei mezzi di trasporto, va detto); ma il meeting ha comunque dato interessanti spunti di riflessione.
Il mercato radiotelevisivo in Italia vale circa 10 miliardi di euro (stime del 2015) e dal 2014 al 2015 ha registrato una crescita dello 0,8% (+5% per la radio).
Il settore in crisi – come prevedibile – si rivela essere quello delle emittenti televisive locali, con una contrazione del 12% nel quinquennio 2011-2015. Dalla discussione è emersa anche l’aggressività commerciale degli OTT, che si accaparrano una grande fetta della raccolta pubblicitaria “danneggiando” le realtà locali, sempre più emarginate.
“La crisi del settore televisivo locale non conosce fine – ha precisato Franco Siddi, consigliere di amministrazione RAI e presidente di CRTV – La raccolta pubblicitaria è letteralmente crollata e imprese televisive storiche, da nord a sud, hanno cessato l’attività per liquidazione volontaria o, peggio, per fallimento. Stiamo perdendo un patrimonio unico di libertà e pluralismo, di presidio informativo del territorio, di conoscenza. Stiamo perdendo centinaia di professionisti, giornalisti, tecnici, amministrativi”. Siddi nella propria relazione ha anche chiesto al Mise l’apertura di un tavolo di dialogo tra emittenti, Agcom e Fondazione Bordoni per chiarire il piano di cessione della banda 700 MHz alle telco che porterà ad un dimezzamento dei multiplex e ad uno switch off della tecnologia attuale verso altre più moderne e capienti (DVB-T2/HEVC).
“L’attuale scenario economico, purtroppo, non agevola la crescita dell’industria culturale e creativa italiana, il cui valore economico sfiora, nel 2015, i 48 miliardi di euro, ma con un potenziale inespresso di crescita fino a 72 miliardi. – ha spiegato Siddi – Stessa considerazione vale per il settore radiotelevisivo che, con circa 9,7 miliardi di ricavi, nel 2015, rappresenta solo il 20% del valore economico dell’industria culturale e creativa, ma che, nonostante la buona tenuta dei consumi televisivi, ha difficoltà di espandere i volumi dei ricavi e di migliorare i margini di redditività. Nel biennio 2015-2016, gli investimenti pubblicitari hanno ripreso a crescere, ma manca ancora un miliardo di euro rispetto al periodo pre-crisi, ed in questo contesto si paga anche un prezzo molto alto al vantaggio competitivo degli operatori globali”.
Fra le problematiche elencate da Siddi vi sono quelle relative a diritto d’autore, operatori di rete, frequenze e fiscalità (“È forse colpa di Google se è andato ad insediarsi in Irlanda, o piuttosto delle asimmetrie nelle politiche fiscali dei vari Stati dell’Unione Europea?” ha risposto Antonello Giacomelli, Sottosegretario Mise alle Comunicazioni).
Ma non è stato fatto nessun accenno alle cause e alle dinamiche, soprattutto strategiche e politiche, che hanno portato alla situazione attuale.
L’origine del disastro, infatti, va ricercata nella pretesa (e – purtroppo – ottenuta) equivalenza di un canale analogico = un mux digitale e nella convinzione di poter estendere all’infinito nell’epoca della tv 4.0 un modello costruito negli anni ’70.
La conversione della frequenza analogica in un bouquet numerico si era rivelata immediatamente come un dono avvelenato o, meglio, come il cavallo regalato dagli Achei ai troiani: era chiaro sin d’allora – almeno a chi voleva guardare oltre – che il sistema non avrebbe potuto reggere una moltiplicazione dell’esistente di almeno sei volte, passando da 600 emittenti a quasi quattromila marchi/palinsesti, oltretutto in gran parte privi di originalità, identità o appetibilità commerciale.
Non solo: autodistrutto il mercato sul piano contenutistico, gli editori locali si apprestano a veder annientato anche quello infrastrutturale a causa di un’altra visione distorta.
Il comparto, a regime (nel 2020/2022), infatti, sosterrà non più di 50 network provider: più o meno due per regione e per il resto nazionali.
I motivi li abbiamo qui più volte evidenziati: l’attività di vettore DTT svolta in maniera professionale esclusivamente in conto terzi (la commistione tra il ruolo di FSMA e di operatore di rete ha fin qui dimostrato di non portare nulla di buono) non è alla portata di tutti, come non lo è la gestione di infrastrutture di telefonia.
Eppure una riconversione operativa delle emittenti locali da soggetti ibridi a FSMA puri, che in un mondo ideale avrebbe dovuto avere luogo da subito e nell’interesse concreto di tutti, potrebbe essere l’occasione per un ammodernamento dei principi ispiratori delle tv locali aggiornato alle reali esigenze del pubblico.
Eppure si può fare e con costi nemmeno rilevanti, come insegna l’emblematico caso di Espansione Tv in Lombardia, a cui abbiamo dedicato attenzione tempo fa.
L’importante è smetterla di piangersi addosso confrontando le tendenze attuali coi dati di bilancio di un’epoca che non tornerà più e guardare oltre gli anni ’80. (M.R. per NL)