Tra molti operatori serpeggia la convinzione che gli over the top del web siano i principali nemici della radio e della televisione, per come le conosciamo.
Se per OTT intendiamo Google, Amazon, Facebook, ecc, si tratta di un equivoco di fondo.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere, Google & C. non hanno interesse a produrre contenuti, facendo già affari d’oro con la veicolazione di quelli che terzi (tra cui radio e televisione) producono (gratis) di fatto anche per loro. Al più, il loro business si può spostare sulla ip tv, ma nella direzione della formula “rich media”, piuttosto che in quelle della pay tv o pay per view (come sta dimostrando Amazon). Anzi, le esperienze passate degli OTT come content provider non sono risultate particolarmente esaltanti tanto che Facebook avrebbe archiviato le ventilate velleità quale produttore tv.
D’altro canto, quello che è successo in Spagna con Google News è emblematico. Si ricorderà che gli editori ispanici contestarono al colosso della ricerca di speculare sui contenuti attraverso il suo aggregatore, sollecitando il governo ad adottare un provvedimento normativo che imponesse una retrocessione delle quote dei ricavi a titolo di corrispettivo per i diritti d’autore, anche se le notizie venivano solo indicizzate “in anteprima”. Il legislatore giallorosso accolse la richiesta, ma Google preferì chiudere Google Noticias, lasciando al suo posto un cartello: “Siamo dispiaciuti di doverti informare che in seguito ai recenti cambi nella legislazione spagnola, le pubblicazioni degli editori spagnoli non compaiono piu’ in Google Noticias“. Risultato: crollo delle visite dell’informazione online e presa di conoscenza del harakiri effettuato dagli editori con seguito di implorazioni a Google di tornare sui suoi passi. Suppliche rispedite al mittente: indietro non si torna è stato il messaggio recapitato da Mountain View (che evidentemente costituiva anche e soprattutto un monito per eventuali altri temerari, che infatti si sono guardati bene da portare avanti improvvide istanze, come qualcuno da noi voleva già fare elevando il caso spagnolo come esempio virtuoso).
La rintracciabilità – non ci stancheremo di scriverlo – è il terreno su cui tutti i fornitori di contenuti battaglieranno: entrare in contrasto coi vettori principali (Google & Youtube, Facebook & Instagram, ecc.) non è una grande strategia. E ciò vale anche per gli aggregatori di flussi streaming (come TuneIn), beninteso.
Peraltro – e anche questo lo annotiamo sempre – i colossi del commercio online sono anche investitori pubblicitari. Negli USA, per esempio, Amazon è il terzo investitore per volume di pianificazione delle emittenti radiofoniche: solo la scorsa settimana, secondo Media Monitors, il colosso del commercio online ha acquistato 36.387 spot pubblicitari, ponendosi alle spalle solo della compagnia di assicurazione Geico (39.421) e dei grandi magazzini JC Penney (39.155), ma superando gli investimenti dei centri di bricolage The Home Depot (28.390) e quelli della catena di grande distribuzione Macy (26.697).
I nemici degli editori radiotelevisivi sono ben altri. I loro arcaici modelli industriali, per esempio.
Ma anche questo l’abbiamo già scritto. (M.L. per NL)