L’ac/dc della radiofonia italiana: il 1990.
Nonostante un periodo lunghissimo condizionato da tantissimi avvenimenti (comunque diverso da regione a regione e, in certi casi, anche da città a città, pur nel raggio di poche decine di chilometri), sebbene difficoltà e percorsi diversi abbiano spesso caratterizzato il cammino di emittenti pur partite dallo stesso punto e in alcuni casi anche dalla stesso territorio, esiste, in ogni caso, un momento che è stato, per tutti quelli che erano arrivati sin lì.
Uno spartiacque dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima, sotto nessun punto di vista, sia economico che emotivo.
Da quell’istante in poi, finiva irrimediabilmente l’era delle radio “libere” e si apriva un mondo nuovo, non necessariamente migliore del precedente, ma sicuramente diverso.
L’anno in cui tutto cambia è, ovviamente, il 1990, con l’entrata in vigore della legge Mammì (L. 223/1990), anche se poi materialmente gli effetti e le chiusure coattive sono avvenute dal 1994 in poi, all’indomani del ricevimento di provvedimenti ablativi.
Nel 1990 le radio costrette a passare la mano sono state migliaia (se ne contano circa 3000), ingoiate da pastoie burocratiche spesso inestricabili per gli “editori” dell’epoca che in parecchi casi erano un misto tra radioamatori e appassionati che avevano occupato l’etere per decenni e mai avrebbero pensato di dovere renderne conto.
Un primo blocco si è quindi praticamente eliminato da solo, non avendo neanche espletato la necessaria documentazione richiesta o avendolo fatto in maniera approssimativa o incompleta. Per altri, invece, la mannaia è scesa ugualmente e spesso a poco sono valsi ricorsi e opposizioni, che hanno solo allungato l’agonia.
Superato in qualche modo l’ostacolo della concessione di cui alla legge 223 del 1990, si sono da subito presentati altri problemi di difficile soluzione: la concorrenza dei network negli anni ‘90 è diventata sempre più aggressiva, scatenando una vera e propria caccia alle frequenze, che ha trovato terreno fertile in chi cominciava ad avere legittimamente timore dell’evoluzione delle cose e, nelle more, temendo di non riuscire a fronteggiare gli avvenimenti, ha preferito accogliere la prima offerta apparsa accettabile.
Non soltanto le radio nazionali hanno però fatto incetta di frequenze: chi tra le locali poteva godere di una certa liquidità finanziaria, e magari di qualche buon intermediario ben informato, ha acquisito tutto quello che poteva ghermire per aumentare il proprio bacino di utenza o solo per moltiplicare la propria offerta pubblicitaria nei confronti degli inserzionisti, proponendo emittenti diverse, che spesso però di diverso non avevano proprio nulla, trattandosi di meri contenitori di spot e di musica gestita dai software di automazione, in alcuni casi senza alcun criterio editoriale o artistico.
Chi tra i medio/piccoli che avevano superato le forche caudine della Mammì nel 1990 ha continuato a resistere, si è indebitato, facendo i conti con una realtà sempre più difficile e perdendo, nel caso ci fosse mai stata, la necessaria lucidità per realizzare un progetto valido e competitivo.
Il presente, al netto di chi (davvero pochi) è riuscito a emergere, parla di sparuti sopravvissuti che litigano tra loro per spartirsi fette di mercato sempre più povere in città devastate da centri commerciali e franchising e quindi con veramente poco da offrire alle emittenti areali.
Senza la necessaria organizzazione e know-how per sperimentare nuove forme di business, come la gestione di eventi, e senza più neanche un seguito di ascoltatori rilevante da poter generare ROI per i clienti pubblicitari. L’unico traguardo possibile sembra essere la tanto agognata vendita al miglior offerente, che però, con il tempo che scorre, sembra diventare sempre meno probabile e remunerativa, visto il crescente disinteresse anche su piazze importanti come Milano e Roma, che hanno visto crollare le quotazioni delle frequenze, destinate a scendere ulteriormente con il passare dei mesi.
Chi ha ancora risorse e idee da investire sta approdando sulle altre piattaforme come DTT e IP provando a disegnarsi una nuova identità e un nuovo futuro possibile.
La fredda rigida logica dei numeri certifica ad oggi 900 radio locali virtualmente esistenti; meno di 500 quelle effettivamente in onda, 300 quelle con dignità d’impresa; 200 quelle che il mercato può sostenere.Questi i numeri reali del mercato radiofonico italiano in corso di rapido assestamento.
Tuttavia, al netto di seconde, terze e quarte concessioni del medesimo soggetto giuridico che non le esercita concretamente oltre al titolo che contraddistingue la stazione principale, le radio in onda in FM, con ogni probabilità, non arrivano a 500.
Di queste, quelle che hanno una dignità d’impresa per numero di dipendenti, fatturato, progetto editoriale e idoneità a reggere sul mercato sono 300.
Nel 1990 erano circa 5000, e per tutti quelli che anche, ed è giusto ammetterlo, per demerito proprio, non ce l’hanno fatta, rimane da chiedersi se qualcosa non potesse o in alcuni casi dovesse essere fatto, se distruggere, consegnando al dimenticatoio, tutte quelle piccole storie che caratterizzavano e raccontavano il vissuto delle grandi città, ma anche dei piccoli centri e dei quartieri, fosse proprie inevitabile.
E se tra i tanti cavilli e codicilli delle leggi succedutesi dal 1990 dopo il periodo dell’anarchia dell’etere non fosse giusto trovare una via d’uscita, una sorta di “area protetta” per chi, in fondo, costituiva nel proprio piccolo un punto di riferimento per un territorio, una palestra e un ritrovo per le nuove generazioni e, in alcuni casi, compagnia e conforto per la terza età che in certi programmi ed emittenti aveva un proprio elemento di unione e di svago con le variegate stazioni di musica popolare che rappresentavano il folklore e la cultura di ogni parte d’Italia.
In teoria la possibilità di accesso a costi e impegni più bassi per le emittenti comunitarie avrebbe dovuto dare soluzione a questo problema; nella pratica un po’ in tutta Italia sono rimaste attive solo quelle di matrice religiosa che avevano una struttura adeguata che ha permesso loro di espletare pratiche e procedimenti nel modo corretto per ottenere la legittimazione.
A tutti gli altri piccoli che, in ogni caso, stavano assolvendo a un compito, realizzando un progetto per la comunità ed erano estremamente più utili di un etere affollato tra doppie e triple frequenze (in realtà potenzialmente irregolari nello stesso bacino di utenza), non c’è stato modo di riuscire a garantire una continuità.
Si è di fatto anticipata la devastazione, che è poi avvenuta successivamente, dei piccoli negozi di quartiere che, invece di essere tutelati, come sarebbe stato giusto, da una normativa, sono stati dati, invece, in pasto ai centri commerciali (la solita vecchia storia del pesce grosso che mangia quello più piccolo).
Nel caso dei punti vendita il più grosso al momento è rappresentato da Amazon che ha messo in crisi tutte le altre rendite di posizione che sembravano acquisite, nel caso delle radio Spotify et similia costituiscono una preoccupazione sempre più ingombrante.
Doveroso comunque riconoscere, in ogni caso e in ogni ambito, le proprie responsabilità ed evitare comodi capri espiatori.
Se anche la tanto discussa legge Mammì del 1990 non fosse arrivata a tagliare teste o fosse arrivata più tardi, poco o nulla sarebbe cambiato nell’esito finale in quanto, prima o poi, i costi di gestione, energia elettrica in primis, avrebbero reso ugualmente insostenibile la competizione per molti e i vincitori a colpi di watt sarebbero stati in ogni caso i soliti noti.
Solo un’improbabile tutela ed altrettanto improbabili agevolazioni o contribuzioni per le piccole emittenti cittadine avrebbero determinato una salvaguardia di un variegato microcosmo di arte e condivisione che avrebbe, in via utopica, meritato maggior fortuna.
Comunque la si voglia vedere e di chiunque siano le colpe e le ragioni, il 1990 ha segnato un punto di non ritorno, cancellando storie che esistevano sin dall’inizio della modulazione di frequenza e che ormai anche noi addetti ai lavori stentiamo a ricordare e nei meandri della nostra memoria somigliano sempre più a leggende metropolitane, ma che, invece, sono tutte realmente esistite e pesano sulle spalle di molti con un bagaglio ingombrante di rimorsi e rimpianti, provando per l’ennesima volta a fare pace con un passato da destinare in ogni caso all’archivio.
Il 21 Novembre al Pirellone a Milano in un nuovo convegno sulla Radio 4.0 invece, come è doveroso che sia, si discuterà su quello che sarà il futuro del medium nel convegno milanese del 21/11/2018 al Pirellone, dal titolo “Radio: Informazione e intrattenimento nell’era 4.0 – Prospettive in onda”, i tempi sono sicuramente maturi per consegnare alla memoria delle ricostruzioni quello che è stato e cimentarsi a immaginare il futuro. (U.F. per NL)