Sbaglia l’editore radiofonico che pensa si possa vivere di solo web, nella convinzione (pur corretta) che questo è il futuro. Ma sbaglia anche quello che pensa che la rendita del posizionamento in FM sarà infinita. Come in ogni modello socio-economico quelli passati e futuri sono di ispirazione, ma è sul momento attuale che si regola l’esistenza e l’affermazione di paradigma.
E, per quanto riguarda la radio, il presente si chiama multipiattaforma, cioè la coesistenza delle quattro piattaforme che veicolano oggi i contenuti radiofonici: FM (ancora primaria per tre/cinque anni), il DAB+ (diretta discendente della FM), il coacervo DTT/Sat (le piattaforme tv che contraddistinguono l’ibridazione radiofonica con la televisione, la cd visual radio) e, ovviamente, il web, l’indubbio futuro, dove entro 10 anni si andrà a terminare l’evoluzione.
Ha senso quindi investire ancora in impianti FM? Sì, se si ha la ragionevole speranza di ammortizzare l’investimento in un lasso di tempo inferiore ai 10 anni. No, se si pensa di farlo solo per speculare sfruttando il crollo dei valori del mercato, perché le quotazioni sono destinate a scendere e mai più a salire.
“Ad essere precisi, l’acquisto di un impianto FM dovrebbe essere ammortizzato in 5-7 anni, perché quello è il momento in cui l’incidenza delle altre piattaforme si incontrerà con la svalutazione dei diffusori FM“, commenta Giovanni Madaro, economista di Consultmedia (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico). “Oggi, in Italia, pochi possono ambire a sviluppare modelli di business radiofonici con il solo web; qualche speranza in più c’è nell’abbinata Web+DTT (meglio se anche DAB+), ma è solo con la presenza della FM che la radio esprime appieno le proprie potenzialità”, continua Madaro.
“Ma attenzione: chi vive solo di FM e relega il digitale ad uno streaming su una propria app e sul sito sta commettendo un errore uguale e contrario di chi vive solo con i piedi nel futuro o ancorato al passato. Il web esige regole di engagement e di presidio singolari, che non ammettono un approccio “tanto per”. Penso alle precipue regole degli aggregatori (sintomatica a riguardo è la questione dei collettori indipendenti come TuneIn) e degli smart speaker (dove è ormai chiaro che non si può prescindere da skill ed action dedicate).
Per quanto riguarda il DAB+, a breve, con gli aggiornamenti Agcom dei regolamenti sulla radio digitale, supereremo l’anacronistico vincolo di sovrapposizione della copertura analogica con quella numerica. Anche se già oggi molti soggetti estendono l’illuminazione in DAB attraverso la qualificazione di soggetti nuovi entranti nel bacini non serviti in FM. Basta vedere il costante aumento degli elenchi dei fornitori di contenuti radiofonici presenti sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico“, chiosa Madaro.
Ma anche per le web radio sono attese novità: da indiscrezioni sembra che la stessa Agcom abbia in animo di estendere a tutte le emittenti che diffondono solo programmi in streaming l’obbligo di iscrizione al Registro Operatori Comunicazione (ROC), anche con fatturati inferiori ai 100.000 euro (limite che anche oggi impone l’iscrizione al ROC).
L’obbligo dovrebbe valere anche per le radio amatoriali e si fonderebbe su una disparità di trattamento coi concessionari in FM, che per almeno la metà non raggiungono il fatturato di 100.000 euro ma sono comunque obbligati al regime ROC (così come le emittenti comunitarie). D’altra parte, è francamente inconcepibile che Agcom, regolatore delle comunicazioni per definizione, non abbia assolutamente il controllo di un comparto editoriale la cui individuazione può essere conseguita praticamente solo attraverso gli elenchi delle licenze rilasciate dalle collecting del diritto d’autore e dei diritti connessi. (E.G. per NL)