Alcuni connotati distintivi dell’“età del ferro” sono completamente scomparsi o, in alcuni casi, fortemente modificati rispetto al passato.
Le diffusioni notturne che prima erano un’alchimia realizzata a mano da artigiani del disco adesso vengono programmate con l’ausilio dei software di automazione, i provini che servivano come password di ingresso per la diretta sostituiti dai talent, le sale dischi che custodivano il tesoro e l’identità di una radio sgomberate per fare posto ai computer, i leggendari adesivi ormai esistono solo nelle preziose collezioni dei cultori più diligenti, le sigle che rappresentavano l’emblema caratterizzante di ogni singolo programma sono state rimpiazzate da jingle spesso tutti uguali.
E’ il mondo che cambia, non sempre in meglio, ma era assolutamente logico che la tecnologia avrebbe modificato quelli che erano retaggi di un passato che difficilmente, almeno nella forma originaria, potevano trasmigrare nel presente.
Ma non soltanto l’avvento di attrezzature più moderne ha determinato inevitabili stravolgimenti, in alcuni casi certi rituali sono stati cancellati da un vera e propria “mutazione genetica”, un radicale cambio della pelle di quello che era con quello che è adesso.
Chi ha fatto radio nel primo periodo, praticamente la quasi totalità di coloro che oggi hanno tra i 50 ed i 60 anni, ricorderà con un misto di timore e tenerezza le riunioni che con cadenza costante si tenevano nelle emittenti del periodo.
Era una consuetudine mutuata probabilmente dall’eredità delle riunioni scolastiche, miscelate con le assemblee di condominio; insomma la percezione dell’assoluta necessità di raggruppare intorno ad un tavolo (ammesso che il tavolo ci fosse, visto l’eccessivo minimalismo di alcuni arredi) quante più persone possibili da redarguire e catechizzare su propositi e intendimenti.
Anche se in quegli anni gli studi erano una sorta di comune nella quale si viveva e a volte si bivaccava l’intero giorno (e quindi di frequente era possibile che si fosse già tutti), la convocazione per la riunione era comunque un rito al quale non si poteva rinunciare.
Non si è mai ben capito a chi toccasse indirla, anche se, di norma, quelli ufficialmente autorizzati erano coloro che rappresentavano la proprietà; essendo per lo più, nella migliore delle ipotesi, ditte individuali o associazioni, non c’erano soci di maggioranza che ne avessero più titolo e spesso alcune società si sancivano con una stretta di mano salvo poi sciogliersi con la stessa rapidità e con molta meno affettuosità rispetto all’inizio.
C’era sicuramente minore burocrazia un po’ in ogni aspetto di quella vita e l’invito per il consesso veniva ufficializzato da un foglio scritto a penna appiccicato alla meno peggio (quelli più organizzati e progrediti avevano una bacheca apposita per tali annunci): giorno e ora e sotto, sempre scritto con la biro, la firma “La Direzione” che poteva, appunto, essere incarnata dai titolari o anche dal malcapitato che deteneva il titolo “nobiliare” di “direttore artistico” e che, in realtà, era un factotum che disponeva della fiducia di chi aveva investito sul progetto. Un eletto che spesso malediceva questo ruolo che lo faceva faticare per dieci e guadagnare per mezzo o per niente, probabilmente avrebbe sofferto di meno se avesse saputo che un giorno la sua figura avrebbe avuto l’ambito riconoscimento di chiamarsi “station manager”.
Sta di fatto che l’ambito giorno arrivava e la seduta poteva finalmente cominciare, temuta da alcuni, quelli che sapevano di essere oggetto di rimproveri e richiami, e fortemente attesa dagli altri, quelli che avevano spinto perché si tenesse, convinti che avrebbe finalmente cambiato le sorti del futuro.
In realtà, alla fine delle riunioni, non si sarebbe concluso niente come al solito; gli argomenti posti all’ordine del giorno erano comunque inesorabilmente sempre gli stessi: la potenza/postazione/diffusione da migliorare, i dischi sempre esigui, l’eterno disordine negli studi, le assenze o i ritardi nei programmi di alcuni, i nuovi ingressi, l’immancabile ricerca della “manina” che trafugava i 45 giri, varie ed eventuali, etc…
Inevitabilmente nelle affollate riunioni ci si accapigliava, si sentivano le ragioni degli uni e degli altri, di frequente ci si accalorava, forse anche in maniera eccessiva, ed è proprio in questi casi che veniva fuori il temperamento di chi guidava la nave e che mettendo in campo carattere e carisma riusciva a risolvere le situazioni più intricate ed evitava ammutinamenti.
Di contro, ragionando poi con calma, non era il caso di perdere amicizie o rischiare denunce per lesioni solo perché qualcuno aveva trasmesso Claudio Baglioni in quella che, in teoria, nasceva come una radio alternativa, spesso il richiamo del cuore (vedi fidanzata) era più forte delle indicazioni sull’orientamento musicale che arrivano dall’alto.
E a rifletterci, con il senno di poi, non era assolutamente facile cercare di uniformare un gusto musicale e costruire un’identità in una radio costituita da svariate decine di persone volontarie sulle quali si poteva esercitare un’autorità relativa e un controllo molto parziale e simbolico.
Eppure senza playlist scritte o imposte, semplicemente confrontandosi, magari animatamente, alla fine si riusciva sempre a trovare una comunione di intenti su una progettualità unitaria forse perché, alla fine, quella generazione cresceva leggendo le stesse riviste (Rockstar, Mucchio Selvaggio, Rockerilla) o vedendo gli stessi programmi Tv (Mister Fantasy, D.O.C., etc…) e quindi inevitabilmente, pur con accenti diversi, si finiva con il parlare la stessa lingua.
Non era facile neanche far convivere nello stesso gruppo personalità estremamente diverse e non di rado complicate, soprattutto la gestione delle modifiche nel palinsesto era di prassi una spina nel fianco.
Quello che in via ipotetica doveva essere un miglioramento poteva risultare un difficile dilemma da risolvere, piccole invidie, rivalità, antiche diatribe da chiarire, equilibri da riposizionare, un po’ come l’arrivo della star Gavin in “I Love Radio Rock” o il talentuoso neofita Barry Champlain in “Talk Radio” che entra per caso in uno studio radiofonico e poi ruba il posto al conduttore principale.
Insomma storie diventate film ma che erano prassi comune nella vita di tutti i giorni con spostamenti continui da un’emittente all’altra.
Trovata la quadratura del cerchio sulla playlist e sulla nuova programmazione, quasi tutti gli altri problemi alla base dell’odg delle riunioni restavano insoluti; la ricezione non migliorava, i dischi nuovi continuavano ad arrivare con il contagocce e a sparire molto più velocemente, i soliti noti continuavano a tappare i buchi nei programmi degli altrettanto soliti noti che da quel contesto cercavano più di prendere che di dare.
Nulla di nuovo sotto il sole, le fatidiche riunioni si concludevano come sempre in qualche pub rimasto aperto sino a tardi e tutte le problematiche si procrastinavano sino al successivo inutile consesso.
Ma in fondo era bello così ed è inevitabile ripensare a quei momenti con nostalgia, oggi che quel mondo è scomparso e che, in quello che è rimasto delle piccole radio areali, per comunicare tra i pochi presenti basta un gruppo su WhatsApp, anche quando ci si trova nella stanza accanto.
Non è, almeno in questo caso, la tecnologia che ha determinato, in un senso o nell’altro, delle mutazioni; è proprio cambiato il modo di rapportarsi e di comunicare, giusto adesso che dai temi del giorno potrebbe essere depennata almeno la problematica dell’annosa mancanza della musica.
Oggi che quasi tutto è apparentemente gratis, in effetti può suonare strano rimpiangere il passato. (U.F. per NL)