Sarebbe interessante realizzare un sondaggio su quante delle emittenti attive oggi sul territorio italiano abbiano ancora presente negli studi uno spazio dedicato alla sala dischi.
Chiaramente a solo scopo nostalgico o di mero arredamento, visto che l’uso del supporto fisico per le trasmissioni risulta essere ormai soltanto un vezzo ad appannaggio di pochi eletti e quasi esclusivamente sulle radio nazionali, in programmi di cui ci siamo già occupati in un precedente articolo dedicato proprio a questo tema lo scorso anno, fascia elitaria arricchita nel 2018 anche dall’arrivo di Red Ronnie su RTL che ha portato alla ribalta sulla prima radio italiana la sua preziosa collezione di vinili.
Ma al netto di queste eccezioni cosa abbia significato per un buon ventennio quella sorta di ”sancta sanctorum” in cui i dee jay dell’epoca costruivano passo per passo la colonna sonora del proprio programma merita decisamente un discorso a parte.
Era un periodo in cui la musica costituiva l’aspetto assolutamente prioritario di un’emittente e la potenza di una radio non si misurava soltanto in watt o in dotazioni tecniche di bassa frequenza, ma anche con la vastità della sua sala dischi, cioè del suo archivio discografico che permetteva di poter offrire ai propri ascoltatori tutte le novità in tempo reale che arrivavano non soltanto dall’Italia ma, anche grazie ai negozi che gestivano seriamente l’importazione, pure dal mercato americano e inglese.
Era una vera linea di demarcazione quella che divideva le radio che potevano permettersi di comprare i dischi con continuità e abbondanza e quelle che invece, alle prese con mille problemi economici, dovevano arrangiarsi alla meno peggio ricorrendo a mille espedienti come, per esempio, usufruire delle collezioni private dei dee jay con il rischio che in un eventuale spostamento di radio, cosa molto comune e frequente all’epoca, i dischi nell’arco di 24 ore sparissero dalla disponibilità di una radio per passare a quella di un’altra.
E in un frangente in cui chi ascoltava un’emittente lo faceva prevalentemente per ascoltare tutta quella musica che in nessun altro modo avrebbe avuto la possibilità di seguire, non essere all’altezza di poter tenere il passo ti poneva inevitabilmente dietro la schiera delle grandi.
A nulla bastava avere un ottimo palinsesto, voci valide, iniziative interessanti, se non potevi offrire una selezione musicale ampia e aggiornata la competizione era già persa in partenza.
In quel contesto storico il costo per essere competitivi in tal senso era notevole ed equiparava sicuramente l’altro costo più temuto, quello dell’energia elettrica, e spesso barcamenarsi tra queste due spade di Damocle per molti medio-piccoli non era facile. Quando non si poteva contare su una proprietà disponibile a tali investimenti ci si doveva arrangiare in qualsiasi modo, anche tampinare sino alla sfinimento i negozianti di dischi per proporre il classico scambio: pubblicità in cambio di materiale discografico per riempire la propria sala dischi (anche solo fisicamente, per garantirsi un’impatto visivo, al di là della qualità dei prodotti contenuti). Una soluzione non sempre di facile soluzione, posto che, a fronte di centinaia di emittenti per ogni città, i negozi di musica erano comunque poche decine; si trattava quindi quindi di una sorta di assalto alla diligenza che spesso non produceva grandi risultati, considerando pure il fatto che il margine di ricavo del negoziante sul prodotto venduto era molto basso e quindi il cambio spot/dischi non era esattamente vantaggioso per l’esercente.
In un periodo come quello della seconda metà degli anni ’70 in cui la produzione musicale era immensa, con capolavori che venivano pubblicati praticamente ogni giorno, per una radio che nasceva dal nulla dover riempire una sala dischi era veramente un’opera titanica.
Con la sempre maggiore presa di coscienza delle potenzialità delle radio libere, anche le case discografiche cominciarono a rendersi conto che inviare promozionali a quelle più seguite poteva costituire un ottimo mezzo per promuovere i propri artisti e questo rapporto dai primi anni ’80 in poi risolse il problema dell’approvvigionamento per alcuni, ovviamente non per tutti, ma solo per quelli che, ”croce e delizia” sin da allora, potevano sfoggiare numeri interessanti nei dati di ascolto: in fondo anche nell’era pionieristica l’unico modo per valutare a distanza per quali soggetti convenisse sobbarcarsi il costo di regalare supporti e pagare le spedizioni.
Per quei pochi in ogni città che avevano quindi la fortuna di ricevere quotidianamente, anche più volte al giorno, la visita di corrieri che recapitavano per la propria sala dischi i pacchi dono ricchi di ogni produzione musicale gentilmente offerti da RCA, CBS, Polygram, CGD, WEA, Ricordi, etc., tanti altri ricevevano dal postino solo bollette e, nella migliore delle ipotesi, plichi di dischi acquistati dai negozi che però bisognava pagare, e neanche poco, dato che certi vinili provenienti dall’estero costavano cifre non indifferenti.
Il denaro, e se vogliamo anche in parte l’organizzazione della struttura, sin dai primi anni segnavano già linee di confine tra chi poteva riuscire ad essere competitivo e chi invece era destinato ad arrancare, magari approfittando dei tanto vituperati dischi juke box, materiale destinato esclusivamente all’uso di apparecchi pubblici situati per lo più negli stabilimenti balneari che riproducevano la musica in seguito all’inserimento di una moneta (fa sorridere oggi pensare che ci fossero tantissime persone disposte a pagare per sentire una canzone una volta sola).
E se quando eri al mare era sicuramente piacevole usufruire di questo meccanismo anche per fare colpo sulla vicina di ombrellone, ritrovarsi in radio quei 45 giri che contenevano per ogni lato due artisti diversi nella canonica e striminzita versione radio, non era esattamente quello che avresti voluto,quando magari, nello stesso momento, il tuo concorrente nella stessa fascia oraria trasmetteva lo sfolgorante remix della stessa canzone e tu dovevi accontentarti della versione originale.
Erano i tempi in cui cominciavano a diffondersi le prime extended version delle canzoni, artisti come Jellybean Benitez stavano già cominciando a cambiare il corso della storia modificando i brani di successo dei cantanti più in voga del momento e per i dee jay poter suonare nel proprio programma diventava fondamentale se si voleva essere competitivi.
Il mondo che comincia a cambiare sempre più velocemente segna comunque anche la nascita dei primi grandi distributori italiani indipendenti come la leggendaria Disco Magic di Severo Lombardoni e via via di Flying, New Music, Dig It, il boom della Italo Disco, o dance italiana se vogliamo, che apre la strada a nuovi interlocutori con cui dialogare, molto più propensi, per attitudine e necessità, ad intraprendere rapporti di collaborazione anche con emittenti più piccole o non ben posizionate o rilevate dalle indagini di ascolto.
La musica cambia, è proprio il caso di dirlo, si amplia quindi la possibilità di ricevere materiale gratuitamente e, conseguentemente, di poter abbattere un costo importante e di potere offrire, allo stesso momento,novità ed anteprime, anche se di generi specifici: quelle ”white label” o copie promozionali solo per le radio che, ai tempi, rappresentavano un vanto per chi poteva trasmetterle e che oggi costituiscono prede ambitissime per i collezionisti essendo state stampate, in alcuni casi, in tiratura limitata.
La crisi del vinile verso la fine degli anni ’80 a favore del compact disc e, qualche anno dopo, l’ingresso della musica liquida e dei software di automazione, hanno cancellato dagli studi radiofonici le tanto famigerate sale dischi, quindi niente più pomeriggi trascorsi a cercare le canzoni per comporre il proprio programma, niente più sguardi estasiati sulle copertine, niente più gare a chi fosse più bravo e veloce a riconoscere un L.P. solo guardandolo fugacemente dal più piccolo particolare.
Tutto quel tempo, quelle emozioni, gioie e dolori racchiusi nella sala dischi, costituita spesso da spazi piccoli e saturi rimangono solo nella memoria di chi li ha vissuti, difficili da tramandare alle nuove generazioni che dentro una sala dischi, ammesso che abbiano ancora la fortuna di visitarne qualcuna, possono vederci solo un ammasso di dischi e non tutto quello che hanno rappresentato. (U.F. per NL)