Da circa due anni a questa parte il settore radiofonico italiano è oggetto di una serie di sollecitazioni di tipo strategico, economico, commerciale e tecnologico.
In particolare, l’acuirsi della crisi delle radio locali (sintomatica di un comparto che sta mutando radicalmente pelle) sta favorendo il consolidamento “interno” delle reti di distribuzione dei segnali FM dei player maggiori (di norma stazioni nazionali, superstation e regionali di spicco), a loro volta compressi dall’avvento “esterno” di competitor quali gli OTT (classici: Facebook, Google, ecc.; settoriali: Spotify, Rdio, Deezer, ecc.).
Diversi indicatori segnalano, infatti, il profilarsi in un orizzonte a breve termine di fattori avversi per il medium radiofonico nella sua accezione tradizionale, ove quest’ultimo non si adeguasse adeguatamente all’evoluzione socio-economico-tecnologica in corso.
Tra questi si palesano: l’indebolimento della radiofonia su territori contenutistici per lungo tempo dominati (come quello musicale, dove la capacità delle radio di affermare artisti e brani è pesantemente insidiata da antagonisti come YouTube e Spotify); un generalizzato, ancorché in nuce, calo della fruizione (che, secondo alcuni rumors, sarebbe già stato registrato) e, ovviamente, l’incapacità di misurarsi sul piano pubblicitario con avversari in grado di profilare l’utente in maniera imparagonabile a quella dei media tradizionali, offrente competitive soluzioni cd. “rich media”.
Per garantirsi il futuro il medium radiofonico dovrà adattare la propria offerta (con i cd. “brand bouquet”, cioè declinazioni del brand o dei brand in più formati) adattandosi all’evoluzione del principio ispiratore “da (relativamente) poche stazioni vs molti utenti a molte stazioni vs (relativamente) pochi utenti” e declinarsi sulla cd. “multipiattaforma”, cioè integrando la classica modalità trasmissiva via etere analogica (con soluzioni IP, DTT, DAB+ e sat) e l’informazione elettronica fornita (nella specie, arricchendo la componente audio con quella video).
A riguardo, se per quanto riguarda il DTT, il DAB+ e il sat non vi è dubbio che le cd. “top station” possano più o meno facilmente e più o meno agevolmente conseguire l’obiettivo (come già stanno facendo, correndo ai ripari dalla scomparsa dei ricevitori FM indoor), diverso pare l’aspetto relativo alla piattaforma IP, dove l’enorme massa di competitori impone l’adozione di strumenti di rintracciabilità, individuati nei cd. “aggregatori”, cioè app di facilitazione per la collazione di contenuti affini, già ampiamente sfruttati per le news online.
Lato utente, del resto, l’utilizzo di un’app aggregatrice delle emittenti radiofoniche consente di ovviare alla necessità di riempire il desktop dello smartphone di icone delle singole stazioni (di norma un ascoltatore radiofonico usufruisce di un numero di stazioni da 6 a 35), sicché è facile comprenderne il vantaggio logistico.
Lato emittente, invece, l’inserimento in un aggregatore terzo determina, per forza di cose, la concessione di importanti elementi di sovranità tipici, come il pieno ed assoluto controllo della piattaforma distributiva, la profilazione dell’utenza, lo sfruttamento del marchio, ecc.
Per tale motivo, più o meno in tutte le nazioni evolute, le top station, spesso sulla scorta dell’esperienza condotta con il principale aggregatore mondiale TuneIn, stanno valutando di realizzare un collettore captive dei propri flussi streaming.
“E’ auspicabile che ciò accada quanto prima anche in Italia” – spiega Stefano Cionini, partner di Consultmedia (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico) e cofondatore di MCL Avvocati Associati – “altrimenti le emittenti (grandi o piccole che siano) finiranno aggregate o, peggio ancora, escluse dai crocevia degli ascolti IP, soprattutto se detti nodi saranno gestiti dai produttori di smartphone o, ancor di più, delle piattaforme di carplay (quindi le case automobistiche)”.
“Non diamo infatti per scontato che i superplayer della radiofonia possano dettare legge per sempre: un provider telefonico come TIM (o, meglio, un colosso internazionale come Vivendi), se volesse, potrebbe già ora far facilmente affermare una propria piattaforma musicale, così come una joint venture tra case automobilistiche (ormai tutte lanciate sul business delle auto interconnesse) potrebbe fare altrettanto, anche se è più probabile che si trovino accordi con big player com Spotify, Rdio o Deezer, ma anche TuneIn“, fa eco Massimo Lualdi, cofounder di MCL e managing partner di Consultmedia.
“In Italia l’esperienza di FM-World, quello che abbiamo definito “il primo aggregatore tricolore”, è illuminante sulla questione: il traffico che già ora sta generando l’app è impressionante“, annota Gianluca Busi, ceo di 22HBG, proprietaria della piattaforma aggregatrice di flussi streaming radiofonici (che peraltro consente la commutazione in FM dello smartphone abilitato alla ricezione analogica), che aggiunge: “Ritengo che le top station abbiamo letteralmente in mano il proprio futuro ed è bene che non sprechino opportunità; ma, soprattutto, tempo preziosissimo“. (E.G. per NL)