Insieme allo sviluppo della radio digitale sulla tv (DTT, per il quale presto si limiteranno le possibilità d’ingresso) e sul web (quanto a piattaforma distributiva dei contenuti), ci sono altre due tendenze in corso: la chiusura delle radio religiose (generalmente cattoliche) e la trasformazione di piccole emittenti commerciali in comunitarie, usufruendo delle opportunità offerta dall’art. 27 c. 6 del D. Lgs. 177/2005.
Quanto al primo aspetto, la discesa della saracinesca riguarda una platea eterogenea di soggetti: tocca certamente le radio parrocchiali, quasi sempre sostenute dalle casse delle Chiese di piccoli centri urbani, ma anche importanti stazioni regionali, magari sovvenzionate da Diocesi o da enti di matrice religiosa che si chiedono se la mission (nel vero senso della parola) abbia ancora un senso, alla luce di taluni fattori oggettivi. Ci si domanda, in particolare, se abbia ancora un fine concreto tenere accesi ripetitori FM per veicolare spesso contenuti altrui (di solito InBlu, piuttosto che Radio Vaticana o qualche altra importante emittente religiosa), stante la difficoltà di produrne di propri, vista la disaffezione di collaboratori (i giovani non sono particolarmente motivati verso un impegno costante nelle radio comunitarie, mentre i volontari storici mollano per sopraggiunti limiti di età). Ma soprattutto, al di là della classica trasmissione delle liturgie religiose, l’interrogativo che serpeggia è: la radio ultralocale rappresenta un mezzo ancora adatto per un efficace proselitismo? Il respiro del web si sente sul collo delle minuscole emanazioni radioelettriche della Chiese. Sempre di più; al punto da spingere a riflessioni economiche ed editoriali oggettive.
Così, sono sempre di più i parroci che abbandonano il colpo; se va bene cedendo la frequenza paesana (ormai) per un tozzo di pane alla rete nazionale di turno, che spesso ha un proprio diffusore limitrofo o isofrequenziale; se va male, spegnendo il trasmettitore o utilizzandolo solo per la diffusione della messa. Le 2000 radio parrocchiali (comunitarie) di trent’anni fa sono un ricordo: sulla carta ne rimangono circa 400 ed il ritmo di chiusura e impressionante: da due a quattro al mese…
Relativamente allo sfruttamento delle opportunità ex art. 27 c. 6 del D. Lgs. 177/2005, ricordiamo che tale disposto normativo consente “alle emittenti di radiodiffusione sonora operanti in ambito locale di ottenere che la concessione precedentemente conseguita a carattere commerciale sia trasferita ad un nuovo soggetto avente i requisiti di emittente comunitaria“ (NB: si tratta di un processo irreversibile, nel senso che una volta variato il carattere concessorio da commerciale a comunitario non si può più tornare indietro.
Tuttavia, considerati i vincoli cui sono soggette le emittenti commerciali (gestione di una società, di persone o di capitali; due dipendenti; sopravvenute ridotte possibilità di conseguire contributi governativi) e che il tetto pubblicitario del 25% loro concesso difficilmente viene sfruttato, ben si può comprendere come i limiti delle comunitarie non siano così insostenibili. Meglio, cioè, subire un tetto del 10% a fronte di spot venduti con maggiore dignità di listino, senza però soggiacere all’insostenibile onere dei due dipendenti e dei costi di gestione societaria, che un default concreto.Certo, l’orgoglio degli editori può subire un contraccolpo nel trasferire la propria radio ad una associazione perdendo il carattere commerciale per conseguire quello comunitario; ma è sempre meglio che dover alzare bandiera bianca. Soprattutto se le possibilità di restare sul mercato ci potrebbero essere ancora a fronte di una riduzione dei costi d’esercizio.
Così, del migliaio di titoli concessori formalmente in circolazione, sono ormai sempre di più quelli che passano da commerciale a comunitario, diminuendo nel contempo il novero delle stazioni con velleità strettamente d’impresa.
D’altra parte, la vecchia FRT (oggi Confindustria Radio Tv) aveva sempre sostenuto che il mercato poteva sostenere non più di 300 emittenti commerciali, ad esser generosi (qualcuno oggi dice che siano 200). Ed effettivamente, ancorché a quasi 30 anni di distanza dal proclama, questo è l’assetto che il sistema sembra assumere.
“Tra il 2016 ed il 2017 abbiamo curato numerosissime pratiche di trasferimento di emittenti commerciali verso enti in possesso dei requisiti per gestire un’emittente comunitaria“, dichiara Giovanni Madaro, responsabile dell’Area Affari Economici di Consultmedia (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico), che, confermando nel 2018 la prosecuzione del trend, precisa: “Lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico ci conferma che è in corso un trend notevole in tale direzione, soprattutto nelle aree più sofferenti dal punto di vista economico”.“A ciò si aggiunge un secondo fenomeno, altrettanto rilevante: quello delle piccole radio che migrano dall’FM alla tv – continua Madaro -. La radio è ascoltata per quasi il 90% in auto, ma solo a condizione che la frequenza FM sia sintonizzabile lungo tragitti di lunga percorrenza; diversamente essa non entra nelle preselezioni delle autoradio (e quindi è sconosciuta alla quasi totalità dell’utenza o, per dirla diversamente, è ERP al vento).
Le concessionarie di auto spesso effettuano dei check sulle autoradio delle vetture in manutenzione per verificare quali sono le stazioni memorizzate, al fine di stabilire su quali investire pubblicitariamente.
Ebbene, fermo restando che difficilmente l’automobilista va oltre le prime sei preselezioni (di cui quattro sono quasi sempre le top radio nazionali), nella quasi totalità dei casi le emittenti con raggio operativo inferiore ai 30-50 km non entrano nelle memorie. A questo punto, la riflessione è oggettiva: se devo limitare il mio potenzialità d’ascolto all’indoor, dove ormai c’è solo un ricevitore FM ogni due case (fenomeno in corso in tutto il mondo tecnologicamente evoluto, come dimostra un recente rapporto USA di cui abbiamo dato conto ieri), tanto vale puntare a cambiare vettore migrando sulla tv, dove almeno c’è la certezza di avere quantomeno due televisori per casa.
Senza considerare poi che, per fare un esempio, un’audiografica su tutta la Lombardia (10 milioni di abitanti) costa come sostenere le spese mensili di un diffusore FM da 1 kW, tra energia elettrica, affitto e manutenzione. Ma un conto è ambire al 50% di un potenziale di 50.000 abitanti, un altro è rivolgersi ad una platea teorica di quasi un quinto di tutti gli italiani”, conclude il consulente.
Così si spiega pertanto un’altra corsa in atto da parte delle piccole emittenti (commerciali e comunitarie): migrare dall’FM alla tv (e all’IP). (E.G. per NL)