Fra gli addetti ai lavori in questi giorni uno dei temi caldi è sicuramente stato quello relativo ai risultati dell’indagine Censis su quale sia il mezzo che esercita più di tutti una influenza sui fattori ritenuti centrali nell’immaginario collettivo della società di oggi.
Un argomento talmente hot che è stato accolto da un silenzio imbarazzante che fa molto rumore. Un fragore che arriva dal collasso dei quotidiani e dall’ascesa di internet (26,6%) sulla radio (4,6%)
D’altra parte, le avvisaglie c’erano già, desunte dal rapporto Miller che ha dato la stessa fotografia negli Stati Uniti.
Il motivo cardine è sicuramente una tendenza che si sta rafforzando: la personalizzazione dell’impiego dei media da parte delle persone.
Sebbene per il comparto radiofonico sia l’ascolto in autoradio il fattore che “tiene botta” sullo scenario, ci sono alcuni segnali forti e chiari che devono essere tenuti in considerazione.
Ci concentriamo sulla grande ascesa dell’ascolto della radio su smartphone (per il 19,1% della popolazione italiana) e il 18,6% dell’ascolto della radio via internet.
Cambiano i paradigmi e la “lezione” che è impartita da questo “stato dell’arte” è abbastanza chiara: se una radio non vuole limitarsi a essere un sottofondo (tendenza che resiste da diversi decenni ma sta mostrando progressivamente il fianco) deve distinguersi. Da tutti.
Non sono solo il Censis o il rapporto Miller o la latitanza dei tanto temuti e sbandierati alla bisogna dati di ascolto che lo chiedono, la richiesta esplicita arriva “dal basso” come ha raccolto Marco Biondi sul suo profilo Facebook e di cui abbiamo scritto qui. C’è voglia di nuovo, di sperimentazione, di freschezza. Abbiamo due segnali che uniscono i puntini: cresce l’utilizzo della radio su internet anche attraverso gli smartphone; il pubblico chiede più freschezza, innovazione, chiede insomma di pensare diversamente e soprattutto chiede perché è abituato al “mondo internet” come qualcosa che fornisce le risposte.
Certamente qualcuno ora sta obiettando che i contenuti ci sono, sono tantissimi, infinite ore anche contemporanee di contenuto radio; vero, ma sono quelli che davvero interessano coloro ai quali sembrano destinati? Francamente, no.
Usando l’abile arte dello zapping radiofonico (i “cintura nera” dell’autoradio sono in aumento) si evince che il contenuto debba interessare, debba valere il tempo che una persona gli dedica. E qui il vantaggio di internet è senza dubbio maggiore rispetto alla modulazione di frequenza: sul web c’è una scelta di base, precisa, unica, che accende quel determinato flusso di contenuti. Su internet innanzitutto sei scelto, non sei una casualità data dallo zapping.
Situazione transitoria, verissimo, in quanto gli aggregatori presto elimineranno questo privilegio e lo renderanno inutile anche con la diffusione degli smart speaker. Tanto vale battere il ferro finché è caldo.
L’utilizzo delle formule “on demand” e “podcast” sono le frontiere che possono fare la differenza: sono digitali, ovvero la forma di distribuzione è quella che viene registrata con la fruizione dalla crescita più grande; non sono vincolate dal momento, a differenza della diretta, quindi fruibili dall’ascoltatore quando più gli aggrada; hanno dalla loro lo svincolo del famigerato clock, croce o delizia che sia; possono andare a colmare quel vuoto di pubblico della radio che ha perso i Millennials e che sono comunque l’interesse specifico di una grossa fetta d’inserzionisti. Impostano una radio “slow” che si può disinteressare di frenesia, di ritmo spinto, di alternanza delle solite canzoni. E in questo micro clima è possibile pensare a una radio che riesce a dare.
Dare approfondimenti, allungare e contestualizzare i propri contenuti senza limitarsi alla ripresa di un articolo o di un contenuto social condensato in 30 secondi, eliminare quel senso di inadeguatezza che avvertiamo ogni volta che “Stefania da Monza” ci dice cosa ne pensa “dell’eliminazione di Tizio dal reality show di ieri sera”, eliminando del tutto la solita musica o proponendone altra.In questo clima la radio può riuscire a dare qualcosa che non sia il riempimento del tempo tra un cluster pubblicitario e l’altro. Riprendendosi anche la dignità, spogliandosi di quei vestiti oramai sgualciti che indossa dalla metà degli anni 70.
Una sfida che dovrebbe essere presa in carico soprattutto dalle realtà più piccole, quelle che hanno tutto l’interesse ad emergere e non hanno il vincolo di dover mantenere posizioni acquisite ma semmai di sovvertire una credenza popolare che ha fatto il suo tempo. Anche se alcuni dei grandi, guardando un po’ più in profondità, lo stanno già facendo. (F.N. per NL)