Alla ricerca degli ascoltatori perduti.
Una premessa: al TER si crede (seppur non necessariamente ciecamente) oppure no.
Nel secondo caso, passate direttamente al prossimo articolo, perché qualsiasi considerazione effettuata su dati di cui non condividete modalità di raccolta o elaborazione, non sarà per voi convincente.
Nella prima ipotesi, invece, non potete non esservi fatti una domanda: dove sono finiti gli oltre 900.000 ascoltatori perduti dall’ultima rilevazione rispetto a quella pubblicata ieri?
Tenuto conto che il periodo di confronto (l’ultimo semestre TER pubblicato prima di questo) non è omogeneo (era mobile, cioè frutto di un compromesso a riguardo di un incidente di percorso che aveva portato all’inusuale analisi di 6 mesi di ascolto decorrenti dal 04/05 al 09/10/2017), con tutti i limiti di una comparazione in stagioni che vedono abitudini d’ascolto anche profondamente differenti, va detto che, a dispetto dei sostenitori dell’immortalità del modello radiofonico tradizionale, qualcosa di grave sta succedendo, anzi è successo.
Il TER si è perfettamente allineato alle conclusioni di ISTAT e Censis (a loro volta fotografia del Rapporto Miller degli USA).
Non poteva essere diversamente, del resto, salvo mettere in discussione la credibilità della rilevazione.
La Radio, perde ascolti, e tanti. Un segnale allarmante, al di là dei consueti (e un po’ ridicoli, diciamocelo) commenti dei perdenti elevatisi vincitori in una (immancabile) prospettiva di comodo.
Ma, come ci domandavano all’inizio, questo quasi milione di ascolti dove è finito?
Con ogni probabilità ad ascoltare altro: streaming on demand, in primis. Il successo di Spotify, YouTube, ecc. è infatti sotto gli occhi di tutti (anche della BBC, ma curiosamente non dei nostri editori) ed è stato così tante volte esaminato su queste pagine da non rendere necessario un approfondimento in questo pezzo.
Ma una riflessione sulla necessità di cambiare un modello che il pubblico, o quantomeno un certo pubblico, dimostra di non gradire più, questa sì, è opportuno che ogni editore radio la faccia. E al più presto, magari insieme a qualche esperto, auspicabilmente meno analogico possibile. Anche perché, taluni sistemi di fruizione, come quello degli smart speaker, lo impongono (privilegiando il podcasting in luogo del live streaming), come si discuterà giusto questo venerdì a Ferrara, in occasione del consesso ristretto di 22HBG insieme a Consultmedia e a NL.
C’è però un’altra considerazione da fare sui dati TER: le radio nazionali perdono più ascolti del complesso del medium, ben oltre i 900.000 e rotti profughi emigrati verso altri lidi di ascolto.
Dove sono finiti tali ascoltatori?
Alle locali. Non a tutte, beninteso: solo a quelle che costituiscono una vera alternativa a reti nazionali omogeneizzate.
In Italia, è sotto le orecchie di tutti, non c’è una grande varietà di scelta radiofonica: a dispetto delle 500 emittenti concretamente attive (vabbé, diciamo 300; anzi no, facciamo 200), l’utente ha la sensazione di sentire sostanzialmente sempre lo stesso formato. Al netto del copia incolla nazionale, l’unica alternativa concreta, sono, in effetti, talune stazioni areali.
Non le scimmie dei superplayer, né i pc attivi in attesa dell’ultima chiamata per la vendita del sempre meno remunerato ultimo impianto FM, ma le stazioni strutturate, quelle dotate di una linea editoriale chiara, efficace e soprattutto alternativa.
Scorrendo i dati di regioni importanti, fuori dalla Lombardia, dove storicamente le radio locali sono considerate Radio Dee Jay e Radio 105 (perché lì sono nate come tali), si scoprono crescite rilevanti che vanno ad alterare equilibri che si pensava fossero consolidati.
Nel Lazio come in Emilia Romagna, nel Veneto al pari di diverse regioni del Sud, ci sono casi di emittenti che hanno registrano impennate importanti negli ascolti con ogni probabilità sottraendo utenti ai nazionali: si tratta però di stazioni con una identità fortissima, un rapporto stretto con la propria utenza, una promozione sul territorio costante ed intensa ed una distribuzione dei propri contenuti rigorosamente cross-platform. Insomma, dove c’è un’alternativa reale alle nazionali, spesso le locali sono premiate perché soddisfano una richiesta del pubblico: la disomogeneità.
A proposito di multipiattaforma: non può non aver pesato nella ridistribuzione degli ascolti il fenomeno dell’esplosione della diversificazione dei device d’ascolto, DTT in primis (in attesa dell’onda d’urto degli smart speaker). Accendendo un televisore oggi, l’offerta delle visual radio si è moltiplicata (almeno) per 20 in quasi tutte le aree italiane rispetto a poco tempo fa. Così, entrando in un bar, si trovano sempre più spesso sintonizzati canali radiofonici alternativi al paio che fino a due anni fa dominavano incontrastati l’indoor epurato dai ricevitori FM.
Insomma, l’indagine TER, pur nella sua controversa affidabilità piena, ha mandato un segnale forte – diciamo un sonoro schiaffo – agli editori ancorati ad un modello palesemente in condizione di pensionamento.
Ora, al netto di improbabili autocelebrazioni, è bene che gli operatori ne facciano tesoro. Magari cominciando ad archiviare pensieri ed approcci analogici. (M.L. per NL)