Il 15° Rapporto Censis assesta duri colpi ad alcune certezze e il calo dell’ascolto in macchina, autentica roccaforte sino a questo momento, lancia segnali che bisognerà interpretare e analizzare quanto prima per trovare rimedi e nuove strategie.
Anche oggi, alle soglie del 2019, dopo oltre 40 anni dalla nascita delle radio private, l’automobile e l’autoradio rimangono un termometro nella misurazione dei dati d’ascolto; strumenti che furono di fondamentale importanza sin dagli albori dell’era pionieristica quando dentro quell’abitacolo non si misurava il tempo di permanenza all’ascolto degli utenti, ma la ricezione della propria emittente in mobilità.
Riavvolgendo indietro il nastro dei ricordi, la memoria ritorna ai tantissimi chilometri percorsi all’affannosa ricerca di testare l’efficacia della copertura nel circondario.
Chiunque abbia condiviso la passione per la radio, a qualunque titolo, non può essersi sottratto a questa pratica, che diventava un’autentica ossessione per “editori’” e soprattutto tecnici (una sorta di via di mezzo tra Archimede Pitagorico e il professore matto di “Ritorno al futuro”), strani personaggi metà uomini e metà cacciavite (tanto è vero che poi fu coniato il termine “cacciavitaro” per identificarne taluni…) che impiegavano tutta la loro giornate, e spesso anche le notti, nell’opera (spesso vana) di fare arrivare il più lontano possibile le onde emanate dal marchingegno che avevano assemblato o in ogni caso modificato.
“Prove tecniche di trasmissione”, locuzione che ai tempi definiva non solo una situazione teoricamente transitoria, ma un vero e proprio modus vivendi in quanto si era perennemente alla ricerca di migliorarsi tenendo sempre conto di quelle che erano le regole indispensabili: ottenere il massimo risultato spendendo il meno possibile. E chiaramente l’unico test di verifica idoneo risultava il perenne girovagare in macchina per accertare le zone di copertura.
Di solito lo si faceva al termine della giornata, con viaggi che cominciavano dopo cena e finivano quasi sempre all’alba e nelle emittenti più organizzate con qualcuno che restava in sede, di solito quello che, a torto o ragione, si riteneva possedesse le migliori cognizioni tecniche e almeno altri due, quasi sempre il proprietario e qualche altro malcapitato che volente o nolente non poteva sottrarsi all’inevitabilità di questo tour.
Alla fine queste “gite fuori porta” risultavano qualche volta pure gradevoli: un modo – ancorché sui generis – per condividere, una passione e trascorrere del tempo con quelli che più che colleghi erano gli amici di sempre.
E chiusi in quelle utilitarie si percorrevano distanze siderali, quando per lo più sarebbe bastato rimanere nello stesso quartiere.
Ma non era la ragione a guidare, quanto il sogno/follia di arrivare il più lontano possibile: su viuzze di campagna o impervi sentieri di montagna ci si slogava il polso cercando di centrare la manopola della frequenza e si dava la colpa a tutto, alla marca scadente dell’autoradio, all’antenna da cambiare sul tettuccio, a qualunque cosa giustificasse il fatto che su quella “magica frequenza” il segnale non arrivasse proprio.
E si andava alla ricerca di cabine telefoniche per chiamare lo “scienziato” rimasto a guardia del trasmettitore, dandogli indicazioni attraverso i risultati forniti dalla autoradio e trasmettendo ragguagli. Alla fine si consumavano quantità cospicue di gettoni, ma non si veniva a capo di nulla in quanto la realtà era difficile da accettare.
Nella maggior parte delle situazioni si trattava di attrezzature assemblate male e posizionate ancora peggio, tenendo anche conto del fatto che sulla stessa frequenza, sovente anche nella stessa città, c’erano di solito anche due/tre emittenti diverse, ognuna convinta ovviamente di essere la migliore e quindi la più potente.
In qualche frangente ci si incontrava, a volte scontrava pure, con i “nemici” della radio concorrente, con cui si cercava di trovare con l’arte della diplomazia un punto d’accordo; in altre circostanze, non di rado, si finiva per “discutere” in maniera meno civile tramite sovramodulazione, portante muta, fischi, sirene, etc., modalità tutte che rendevano quel contesto assolutamente unico e irripetibile (per certi versi, per fortuna….).
Dopo questi interminabili giri in automobile il risultato era comunque sempre lo stesso: contenti o delusi si ritornava in sede e nella cartina geografica allocata all’interno degli studi (autentico must have dell’epoca), si posizionavano nuove bandierine in strade, quartieri, spesso anche città vicine che si immaginava di avere raggiunto con il segnale.
In fondo bastava poco per illudersi: qualche nota udita per caso sulla autoradio per pochi secondi in mezzo a mille altre interferenze, dava comunque il diritto insindacabile di fissare nuovi punti sulla mappa.
E quel cartellone usurato e ingiallito dal tempo diventava in ogni emittente il quadro insindacabile del potere; poco importa quanto ci fosse di vero in tutte quelle province coperte, l’importante era dimostrare a se stessi e agli altri di avere “l’antenna più alta in città”.
In fondo, molti dei pionieri di quel periodo provenivano dal mondo dei radioamatori e, inesorabilmente, il retaggio era quello di chi misurava la propria potenza in watt e bastava aver propagato, anche una sola volta nella vita, un segnale in una località per inglobarla a titolo definitivo nel proprio feudo.
Poco rilevava che l’unica casa realmente raggiunta dal segnale fosse in vetta ad una montagna e in tutto il resto delle vicinanze non arrivasse attraverso la autoradio: nessuno si sarebbe mai preso la briga di contraddire quanto affermato.
Erano tempi in cui la fantasia volava più in alto delle onde elettromagnetiche e non si poteva né si voleva circoscrivere un sogno dentro rigide formule matematiche o prospetti tecnici: si viveva in una sorta di scuola di magia di Hogwarts e ognuno era il protagonista della propria fiaba.
E oggi, tanti anni, chili, disavventure dopo, anche chi da quel mondo è uscito fuori da tempo, è impossibile che ripensando a tutte quelle notti trascorse a “caccia di segnali” non provi un tuffo al cuore per un mondo che non esiste più ma che ha segnato le storie di tantissime persone e dato comunque vita (seppur in maniera istrionica e talvolta maldestra) a tutto quello che è ora.
Infatti se il futuro ha destinato ad altra attività la maggior parte dei protagonisti dell’epoca, bisogna pur annotare che alcuni invece, da quelle esperienza al limite del paradossale, hanno costruito strutture di tutto rispetto: maggiore capacità, congiunture favorevoli, zone geografiche più consone, lungimiranza e quel pizzico di buona sorte che non guasta mai, hanno comunque scritto storie differenti pur iniziando dallo stesso punto di partenza. (U.F. per NL)