Nell’ultimo report Nielsen Audio Today, il managing director Brad Kelly afferma che il broadcasting AM/FM continua a raggiungere ogni settimana più persone di quanto fa qualunque altro medium. Il 93% della popolazione degli Stati Uniti continua ad ascoltare la radio con frequenza settimanale. Niente male per un mezzo di comunicazione quasi secolare, verrebbe da dire.
Dal report si evince che tra gli utenti maggiorenni (18+) ben 228,5 milioni utilizzano la radio (broadcasting) settimanalmente. Un dato che impressiona ancora di più se si pensa che, nella stessa fascia di età, gli utenti che fruiscono settimanalmente della televisione sono 216,5 milioni e – incredibilmente – ancora meno quelli che fruiscono dello smartphone (203.8 milioni, di cui 127,6 milioni per guardare video).
Brad Kelly sottolinea poi come la radio broadcast (intesa come radio diffusa via etere con infrastrutture di proprietà, quindi trasmettitori ed antenne controllate, appunto broadcasting tipico) conservi un primato anche rispetto agli streaming audio, alla radio satellitare ed ai podcast: per lo stesso bacino di utenza, infatti, l’utilizzo almeno settimanale di questi media avviene, rispettivamente, da parte di 68.5 milioni di persone, 35,7 milioni e 21,9 milioni. “La radio ha un ruolo di rilievo nella nostra cultura – afferma Kelly – e la sua audience è variegata e differente in tutta la nazione. Ad ascoltare la radio sono persone appartenenti a ogni generazione, genere ed etnia e questo non può passare inosservato agli occhi dei grandi brand nazionali. I maggiori inserzionisti (che investono miliardi di dollari in adv) stanno riscoprendo il potere della radio, come questa può argomentare, sostenere e amplificare l’effetto dei loro media mix. Così, verso la radio stanno confluendo nuovi flussi di capitali che arrivano da grandi marchi, i cui brand – dopo decenni di assenza – stanno ricomparendo negli spazi commerciali radiofonici”.
Il ritrovato primato della radio non cambia, sempre secondo il rapporto Nielsen Audio Today, se si considerano gli utenti mensili per medium.
Da un altro punto di vista, si potrebbe dire che se la radio resta nell’olimpo dei media preferiti dagli americani, è però insidiata sul suo trono dal crescente ruolo delle trasmissioni in tecnica digitale attraverso device smart, cioè via IP (smart tv, smart speaker, smartphone, connected car).
C’è addirittura chi ha parlato di “morte della radio”, intendendo che nel futuro le trasmissioni non-lineari (cioè streaming on demand, con Spotify in testa, che punta diretta al lucroso regno dell’automotive nella sostanziale indifferenza degli esponenti del broadcasting) soppianteranno quelle lineari (come già in qualche modo accade per la televisione con Netflix e Prime): così, per esempio, si è pronunciato provocatoriamente Ben Hammersley, giornalista di Wired e The Guardian (nonché tecnologo esperto di internet e broadcasting) durante i Radiodays Europe a Vienna.
Come comporre la posizione di Hammersley con le evidenze (in qualche modo confortanti per la radio tradizionale) del rapporto Nielsen? Probabilmente la variabile che tiene insieme le due cose è il tempo: podcast e on-demand potrebbero davvero segnare il declino delle trasmissioni lineari, anche se per ora la radio conserva un’importanza centrale nel panorama mediatico e ci vorrà tempo per scalfire il suo ruolo privilegiato.
Ciò che da alcuni è indicato come possibile fattore di crisi della radio lineare è una sorta di colpevole pigrizia, di impoverimento dell’attività di produzione. Secondo questo modo di intendere, ci sarebbe già un abisso qualitativo tra la radio lineare e le produzioni più brevi, ma meglio confezionate e più ricche di contenuto pensate per podcast e digital radio IP.
Se fosse solo una questione di contenuti, quel ritrovato slancio degli inserzionisti verso la radio potrebbe essere incanalato per colmare il rischioso divario e difendersi dalla concorrenza dei servizi audio non-lineari. (V.D. per NL)