L’unione fa la forza. Tutti per uno, uno per tutti. Immancabilmente, quando c’è un grosso problema che interessa il comparto, vengono spolverati gli antichi proclami sulla necessità di far massa attraverso l’associazionismo.
Che però, alla prova dei fatti, in Italia non ha mai funzionato, forse, prima di tutto, per un problema di individualismo radicato nel DNA dei piccoli imprenditori della Penisola (non necessariamente solo radiotelevisivi).
Le radio e le tv locali non hanno mai fatto realmente unione; sì, dalla seconda metà degli anni ’70 a quella degli anni ’90 ci sono stati sindacati con numeri rilevanti di iscritti, ma la partecipazione sostanziale è sempre stata modesta e solo a riguardo di pure lettere d’intenti. Piuttosto, ha prevalso l’ostacolazionismo, profondendo molte più energie nel tentare di frenare lo sviluppo del dirimpettaio – in verità più collega di tante sventure che concorrente di grandi affari – che nello sviluppo collettivo.
E’ anche vero che, nel settore radio-tv, sindacati puri non ce ne sono stati tanti: in prevalenza si è trattato di espressioni professionali interessate a gestire l’importante indotto, anche se bisogna dare atto che qualche idealista che c’ha creduto e ci crede c’è, come ad esempio Mario Albanesi del CONNA. Ma la verità è che spesso l’amico Albanesi le sue battaglie le ha condotte quasi da solo, costantemente abbandonato nella pugna dai profeti dell’armiamoci e combatti.
Sia ben chiaro, chi firma l’articolo è sostenitore delle lobbying nel senso virtuoso del termine: in un contesto di “democrazia di commercio” le istituzioni devono poter essere influenzate dall’esterno per favorire particolari interessi.
Però in Italia le lobby (ritengo irritante pluralizzare i termini stranieri) radiotelevisive sono state pressoché esclusivo appannaggio dei grandi gruppi nazionali o comunque delle maggiori imprese locali spesso agenti sotto l’insegna del comparto per l’intero: una vera azione per sostenere la collettività delle emittenti locali non è mai stata attuata.
E’ stato così con l’etere, è così con Internet: la rappresentanza delle web radio è (a essere generosi) poco significativa. E’ un dato di fatto di cui occorre prendere e dare atto.
In oltre vent’anni di attività come consulente nel settore radiotelevisivo non so nemmeno quanti inviti ho ricevuto per fondare o presiedere una nuova associazione di categoria. Ho sempre ringraziato, ma declinato l’offerta perché penso che sia più corretto (e produttivo) operare in trasparenza: come Consultmedia rappresentiamo (alla luce del sole) le istanze dei nostri “clienti”, che tali sono senza doverli definire con malcelata ipocrisia “associati”. Due decenni fa ho valutato che le cause del comparto potessero essere più proficuamente sostenute con un’assistenza professionale qualificata e utilizzando l’informazione: per questo nel 1999 ho voluto creare Newslinet, facendone uno strumento di amplificazione delle gioie ma anche dei dolori del comparto radiotelevisivo. Oggi più che mai sono convinto che non avevo torto.
La radio e la televisione stanno vivendo un momento di grande euforia in prossimità di trasformazioni epocali lungo un processo di integrazione con piattaforme diverse da quelle che storicamente le avevano ospitate (quelle via etere). Addirittura la radio e la televisione, da antiche nemiche stanno diventando più che alleate: si stano ibridizzando.
E magari, in questo contesto, potrà essere scritta una nuova pagina del concetto stesso di “soggetto portatore di interessi diffusi”. (Massimo Lualdi per NL)